Israel Joshua Singer (1893-1944) è uno scrittore polacco, che ha scritto soprattutto in yiddish come il suo fratello minore Isaac B. Singer, che fu insignito nel 1978 del premio Nobel per la per la letteratura. Entrambi nati in una famiglia polacca vicino Varsavia, più tardi si trasferirono negli Stati Uniti. 

Il libretto di cui stiamo parlando è una testimonianza abbastanza eccezionale: è l’autunno del 1926 quando Israel J. Singer, su invito del direttore del “Forverts” (Forward) – quotidiano yiddish di New York, si reca in Unione Sovietica per un reportage che lo impegnerà per diversi mesi. Lui era già stato in quel paese tra il 1918 e il 1920, quindi durante il periodo più turbolento e duro della rivoluzione bolscevica, quando Lenin e Trotsky furono obbligati, spesso usando anche il terrore, a difendersi contro l’invasione delle armate bianche, sostenute e finanziate dalle potenze occidentali, che volevano con ogni mezzo distruggere l’esperienza bolscevica. 

Questi reportage furono poi raccolti in un volume che apparse nel 1928, ma che in italiano vengono ora pubblicati per la prima volta. Anche se Singer, peccando di understatement, dice che si tratta solo di “immagini e impressioni scritte di getto, sul momento, come accadde nei viaggi” il tutto risulta invece una testimonianza eccezionale, per molti versi unica. 

Con molta spontaneità e altrettanta oggettività, il giornalista-scrittore descrive tutta una serie di incontri e di visite durate molti mesi, in quella parte dell’Unione Sovietica che va dalla Bielorussia e dall’Ucraina fino a Leningrado e a Mosca. 

Singer sa centellinare molto bene sia gli aspetti positivi che negativi della realtà che incontra. Difatti nota una serie di “degenerazioni”, che viste retrospettivamente devono essere considerate come avvisaglie della degenerazione staliniana. In particolare, coglie la crescita della burocrazia, la presenza più marcata dell’apparato poliziesco e quindi una serie di intoppi nel dibattito politico. D’altra parte sottolinea però con forza, rispetto alla sua esperienza di diversi anni prima, quanto era stato fatto dal governo bolscevico per estirpare l’antisemitismo, che da sempre dominava da quelle parti, ed anche gli sforzi molto notevoli, in una situazione economica difficile, profusi per sostenere la lingua e la cultura di tutta una serie di minoranze: dai tatari ai tedeschi, dagli ebrei (innumerevoli le scuole yiddish create in quel periodo) agli uzbeki. 

Il sostegno attivo alle varie etnie e culture (con non solo scuole, ma anche villaggi riservati all’una o l’altra etnia) lasciano però anche sospettare che si tratti di un approccio spesso abbastanza formale (sotto la guida del “santo Vladimir”, la cui immagine domina ovunque), con una serie di tensioni sottostanti, pronte a scoppiare. 

Singer è anche molto impressionato dagli sforzi del governo per integrare nella società le decine di migliaia di orfani e bambini di strada, nonché dalle molteplici attività formative per trasformare gran parte dei contadini in operai specializzati. Pensando all’attualità dei giorni nostri, non si possono non registrare descrizioni molto vivide di città attualmente tragiche vittime della guerra, come p. es. Bachmut e Mariupol. Ad impressionare è però soprattutto la descrizione entusiastica della bellezza della Crimea, che il nostro autore giudica come probabilmente la regione più bella del mondo. 

È un libro che si legge tutto d’un fiato, proprio come capita con le raccolte di entusiasmanti reportage di viaggio. Alla fine, pensando a tutto quanto è capitato dopo, uno non può che rattristarsi ancora di più per il fatto che quest’esperienza, nata come grande speranza per tutto il mondo e di un nuovo mondo, si sia poi così malamente conclusa. Ma forse, partendo da una realtà molto difficile ed estremamente retrograda, era veramente chiedere troppo che da lì potesse nascere il nuovo mondo.