Parlano di dialogo accendono le ruspe
fanno dichiarazioni snudano manganelli
prendono aperitivi lusingano i turisti:


 certo sarebbe ingenuo definirli fascisti.
 

Accendono le ruspe sognano i carri armati
radono al suolo incrociano i loro lunghi coltelli
sorridono gentili vestono da statisti:


 c’è forse una ragione per dire che sono fascisti?


 All’imbrunire un sindaco agisce virilmente:
 chiama la polizia ma lui non ne sa niente.
 Ordina distruzione la cosa lo rattrista:


 ma in fondo lui è soltanto un sindaco leghista.


 Il fascismo è una voce dentro i libri di storia
 non c’è nessun motivo di usare la memoria.
 Un sasso sul passato basta discorsi tristi:


 oggi non mette conto dichiararsi fascisti.


 Giovani sani e forti che ballino contenti
 città che sappia offrire feste divertimenti
 questo il programma giusto tutti felici e artisti:


 gaudenti spensierati non vuol dire fascisti.


 Parlano di dialogo negano che le ruspe
 siano state volute pensate programmate
 la vita che continua non vuole complottisti:


 e chi oserebbe adesso parlare di fascisti?


 Anarchici bastardi schifosi comunisti
 feccia rossastra negri drogati: inevitabile 
dovuto e democratico il loro repulisti:


 sono dei governanti non sono fascisti.


 Si fregano le mani si grattano le palle
 pescano qualche oliva dicono barzellette
 si vestono di bianco mangiano fritti misti


 ma con tutta evidenza non sono fascisti.

 

Letta mercoledì 3 giugno, durante un Poetry slam organizzato davanti alle rovine dell’ex-Macello di Lugano, questa poesia sbagliata, come l’ho definita, è stata seguita da un mio breve commento, che diceva più o meno questo: “È una poesia sbagliata perché l’ho scritta sulla scia dello sdegno e della rabbia, e non è questa la strada che io penso si debba seguire. Tutti abbiamo, in questi giorni, e voi molto più di me, sentito lo sdegno, la raggio, l’ingiustizia di cui molti hanno parlato questa sera. Ma io credo che appunto questa sia una strada da superare con altro, con qualcosa di positivo, per non cadere nella trappola che attende tutti noi. La rabbia e la violenza farebbero il gioco di chi la rabbia e la violenza ha usato qui dietro, in modo ben diverso”.

Oggi, una settimana dopo, continuo a pensare in sostanza le stesse cose. Ma penso anche che il silenzio assordante del Municipio di Lugano di chi nel Governo cantonale ha la responsabilità superiore delle azioni di polizia rendano la poesia sbagliata un po’ meno sbagliata. Il futuro dell’Autogestione in Ticino non può che passare attraverso quel dialogo oggi arduo da immaginare, e tuttavia indispensabile; e in questo senso sdegno e rabbia andranno superate con passione, fantasia, intelligenza. 

Ma il futuro del Ticino chiede che ciò che è avvenuto non passi sotto silenzio e non rimanga senza conseguenze politiche. Da questo punto di vista, il problema oggi più urgente e preoccupante non è quello dell’Autogestione (che non dovremmo neppure considerare un problema, ma un’opportunità), bensì quello di una deriva autoritaria, antidemocratica, arrogante e violenta, nelle parole, negli atteggiamenti, e ora anche nelle azioni. Qualcosa di grave e di intollerabile, rispetto a cui lo sdegno e la rabbia sono più difficili da far tacere.