Il disordinato e affrettato abbandono dell’esercito americano da Kabul non ha provocato, come si poteva attendere, una reazione propagandistica da parte della Federazione Russa. Anche la stampa più direttamente collegata al Cremlino non ha calcato la mano sulla sconfitta americana e il ministro degli esteri Sergey Lavrov si è limitato a un giudizio secco quanto accorto: «La situazione tende a un rapido deterioramento, anche nel contesto del ritiro precipitoso delle truppe americane e di altre truppe della Nato, che nei decenni della loro permanenza in questo paese non hanno raggiunto risultati tangibili in termini di stabilizzazione della situazione».

Non è un segreto che Mosca abbia sempre temuto che l’avvento di un governo talebano in Afghanistan potesse diventare il trampolino per la ripresa del radicalismo islamico nel suo territorio, vista la massiccia presenza di migranti nelle grandi metropoli russe e i settori di popolazione della sua area transcaucasica, oggi dormienti e sconfitti, ma, come ci insegna la storia, mai domi. Inoltre le scaramucce che si ripetono costantemente ai confini del Tagikistan tra milizie talebane e truppe frontaliere del paese centroasiatico (alleato militare della Russia) propongono dei seri motivi di inquietudine per Putin.

Per questo nei confronti del nuovo regime di Kabul la Russia ha mostrato di voler avere un approccio pragmatico: sono stati rimandati a casa i cittadini russi presenti in Afghanistan ma la sua ambasciata (come del resto quella cinese), ha continuato a lavorare regolarmente. Non è un caso che mentre formalmente i talebani restano formalmente un’organizzazione sulla lista nera ufficiale di Mosca, qualche settimana fa, alla spicciolata, una delegazione al più alto livello dei radicali afgani è giunta a Mosca per una trattativa riservata, ma neppure tanto come vocifera il quotidiano moscovita Kommersant: in cambio della promessa di lasciar in pace la Russia, i nuovi padroni di Kabul avrebbero richiesto a Lavrov investimenti in infrastrutture – soprattutto nel settore energetico – per la ricostruzione del paese.

Data l’incertezza che si profila a oriente, l’amministrazione russa punta a stabilizzare la situazione ai suoi confini occidentali. Mentre Gazprom riesce a portare faticosamente in porto il gasdotto russo-tedesco North Stream 2.0 che pomperà nuova linfa energetica in Europa, Mosca ha sottoscritto un importantissimo accordo economico e commerciale con la Bielorussia che potrebbe preludere nei prossimi anni a una vera e propria unificazione politica tra i due paesi. L’accordo di integrazione economica firmato a metà settembre da Putin e Lukashenko è ambizioso e prevede entro il 2023 l’armonizzazione della politica monetaria e del sistema creditizio. Gli stessi obiettivi vengono posti per i pagamenti elettronici, sulla tracciabilità informatica delle merci, oltre che della legislazione fiscale e doganale. L’importanza dell’accordo è facilmente comprensibile se si evidenzia quanto esso sia più esteso di quello che lega l’un l’altro i paesi aderenti alla Ue: nel trasporto aereo e ferroviario vi saranno pari condizioni tariffarie tra i due paese come anche per quanto riguarda l’organizzazione del trasporto passeggeri e merci. Verrà creato persino un mercato unico di tutti i prodotti energetici e unificata la legislazione in materia di rapporti di lavoro.

Anche se per ora non si parla di mettere in soffitta il rublo bielorusso come ha precisato il portavoce del presidente russo Dmitry Peskov, è evidente dal complesso di misure previste si tratta di un’integrazione che ha evidenti ricadute politiche.

Dopo le proteste massicce della scorsa estate a Minsk, Mosca blinda l’unico vero alleato restatogli in Europa orientale, mentre la Bielorussia potrà così in qualche modo aggirare le sanzioni internazionali ed accedere ancora di più al (potenzialmente) vasto mercato russo. A questo punto, sempre di più, una caduta del regime di Lukashenko potrà avvenire solo nel quadro di una crisi politica a Mosca, che ad oggi appare lontana.

Lontana ma non impossibile visto che le acque sulla rive della Moscova continuano ad essere agitate. Le elezioni per il rinnovo dei deputati alla Duma di Stato, che si sono tenute alla fine di settembre hanno confermato il lento ma inesorabile declino della stella di Putin (quella del partito a lui vicino «Russia Unita» è in corso già da almeno un decennio). I numeri che parlano del partito-regime ancora vicino al 50% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi non devono trarre in inganno. Malgrado le frodi (una normalità per la Federazione), malgrado si sia allungata la possibilità di votare a ben tre giorni, malgrado si sia aggiunto il voto elettronico su cui i partiti di opposizione non hanno possibilità di realizzare alcun controllo, il -6% a «Russia Unita» è ben più che un semplice campanello d’allarme: la macchina oleata della raccolta del consenso pilotato si è evidentemente inceppata.

Non è bastata l’estrazione di premi (appartamenti, automobili, buoni-acquisto nei supermercati) finanziata dalle grandi imprese russe per chi avesse deciso di votare elettronicamente, non è bastato un assegno una-tantum a militari, poliziotti e pensionati di quasi 200 euro, non è bastata la giornata libera del venerdì per i lavoratori dei municipi, per dare l’impressione che tutto stesse andando come al solito, con una squillante vittoria putiniana. 

E non è bastato neppure mettere alla testa delle liste di Russia Unita candidati civetta che mai si presenteranno in  parlamento come i popolari ministri della Difesa (Sergey Shougu) e quello degli Esteri (Sergey Lavrov). Intanto perché dalle urne viene fuori un +7% per i comunisti di Gennady Zyuganov, il principale partito di opposizione alla Duma. Anche qui i numeri devono essere presi con le molle. Nel voto ai seggi nei collegi uninominali, nelle grandi città dove il controllo è maggiore, spesso i candidati comunisti vincono a mani basse e anche nella quota proporzionale è di fatto testa a testa con il partito al potere.

Restano comunque anche qui dei punti di domanda. Come è possibile che un partito che ancora rivendica la continuità del «programma di Lenin e di Stalin» sia riuscito a invertire un declino che da 20 anni era sembrato a tutti inesorabile? I motivi sono molteplici. In primo luogo il Partito comunista, è stato il partito che con maggiore enfasi si è opposto alla controriforma delle pensioni del 2018 che ha innalzato per la prima volta l’età pensionabile in Russia. Malgrado le timidezze (i comunisti avevano promesso che sulla previdenza avrebbero raccolto le firme per un referendum) si tratta del partito che parla di quello che sta più a cuore di milioni di russi: ovvero della disastrosa distruzione del welfare iniziata da Eltsin e proseguita nel decenni turboliberisti di «Zar Putin».

A tutto ciò si deve aggiungere la tattica del «voto intelligente» scelta dalla vasta galassia dell’opposizione – quell’opposizione che con superficialità la stampa occidentale chiama e attribuisce tout-court a Navalny. Schiacciata dalla repressione (in questi mesi sono proseguiti selettivamente arresti, fermi, condanne e chiusure di siti internet) nella rete è iniziato il tam tam per il voto ai comunisti come unica arma per incalzare il potere. Una tattica a cui si è unita la rarefatta area della «sinistra alternativa». Ora spetterà ai comunisti decidere se mettersi in gioco e diventare un ampio polo di riferimento per chi vuole mettere fine a un regime in affanno o ripetere alla Duma l’opposizione «costruttiva» delle scorse legislature.

Se proiettato su scala internazionale il voto russo ha prodotto un paradosso politico che le cancellerie dei paesi occidentali stenteranno a comprendere: il loro sostegno a Navalny ha prodotto per ora il rafforzamento dei comunisti. Né Merkel, né Biden, avrebbero immaginato che i loro sforzi per sostenere l’opposizione «liberale» avrebbero potuto avere un simile sviluppo.