Il Prof. Paul Vogt, recentemente chiamato a dirigere il dipartimento di cardiochirurgia dell’Ospedale Universitario di Zurigo (da mesi in preda ad una grave crisi strutturale) conosce perfettamente le strutture sanitarie cinesi, avendoci lavorato per parecchio tempo. Recentemente ha definito come «ignorante, arrogante ed intriso di complessi di superiorità» l’atteggiamento occidentale nel giudicare quanto la Cina ha fatto per affrontare la pandemia di Covid-19.

Difatti il mantra ripetuto all’infinito nei media mainstream occidentali è che la Cina ci ha regalato il virus, oltretutto reagendo in ritardo nella fase iniziale, ed è riuscita a controllare l’epidemia solo grazie a delle misure dittatoriali, impensabili altrove. Quindi: nessuno sforzo per presentare oggettivamente la situazione e capire un po’ meglio cosa sia capitato. Il tutto poi è ulteriormente peggiorato da quando Biden, facendosi portavoce del terrore dell’establishment economico americano di essere superato fra qualche anno dalla potenza asiatica, ha lanciato una nuova guerra fredda contro Pechino. E allora tutto fa buon brodo: così si è riscoperto, ripetendolo anche qui all’infinito, il dubbio che il virus abbia forse avuto origine in un laboratorio cinese, da cui sarebbe sfuggito per evidente imperizia degli scienziati locali. A nulla valgono in proposito le affermazioni della stragrande maggioranza dei virologi mondiali, che ritengono queste ipotesi come estremante improbabile.

Ma torniamo alla storia della pandemia. I primi casi di «polmonite atipica» sono stati registrati a Wuhan verso la fine di novembre del 2019: i primi dubbi su una possibile «nuove grave malattia» espressi da medici locali sono stati banalizzati, ed in alcuni casi addirittura repressi, dalle autorità municipali. È stato solo quando Pechino e, soprattutto, le strutture responsabili del controllo delle malattie infettive nella capitale hanno avuto sentore del tutto che il problema è stato affrontato rapidamente ed in modo decisivo. Già il 31 dicembre 2019 la Cina segnalava la situazione all’OMS a Ginevra, e meno di 10 giorni dopo forniva tutti i dettagli sul genoma del nuovo virus. Certo, un po’ di tempo lo si è perso, ma ciò può essere comprensibile in un momento dove non si sapeva ancora assolutamente niente di questa malattia. Quanto tempo si è invece perso nei paesi occidentali, quando la pandemia si è dichiarata anche da noi, pur avendo a quel momento le nostre autorità sanitarie molte più conoscenze a disposizione di quanto fosse il caso dei cinesi alla fine del 2019? Ma questa autocritica è al di là da venire e basterebbe pensare alla tragicommedia sull’inutilità delle mascherine portata avanti per mesi dall’Ufficio Federale della Sanità di Berna.

Ufficialmente la Cina dichiara attorno ai 5’000 morti di Covid: è probabile, viste anche le incertezze iniziali, che il numero effettivo sia più alto. Ma anche volendo esagerare e moltiplicando questa cifra per 10 o per 20, saremmo sempre nell’ordine di 50’000 o 100’000 morti. Per capire meglio questi dati, possiamo fare un paragone con la Svizzera e gli Stati Uniti: se in Cina ci fosse stata la stessa prevalenza di mortalità che da noi, avrebbero avuto circa 1.5 milioni di morti, mentre se la prevalenza fosse stata la stessa che negli USA, i morti sarebbero stati addirittura 2.5 milioni! E tenuto conto delle decine di milioni di cinesi che vivono all’estero e che hanno contatti molto stretti con i loro parenti in patria, è assolutamente inimmaginabile che Pechino abbia potuto nascondere centinaia di migliaia di morti. 

Il già citato Prof. Paul Vogt sottolinea quindi come, che a noi piaccia o no, i cinesi abbiano salvato centinaia di migliaia di vite umane a dir poco. E siccome il diritto alla vita è il diritto umano fondamentale, forse qualche pensierino a questo dato di fatto dovremmo farlo.

Certo, i cinesi hanno poi risposto con dei lockdown durissimi, difficilmente immaginabili alle nostre latitudini. Ed è evidente che sono stati soprattutto questi lockdown a salvare centinaia di migliaia di persone. Ma non solo. Innumerevoli testimonianze di occidentali che vivevano e vivono in Cina dimostrano che un elemento essenziale è stato avere il senso del noi che prevale nella cultura cinese, ma anche e forse soprattutto l’organizzazione capillare degli aiuti alla sopravvivenza realizzata dalle autorità in collaborazione con i membri del partito comunista (non dimentichiamo che questi sono quasi cento milioni). Queste testimonianze dimostrano difatti che i lockdowns duri e prolungati sono stati possibili solo perché nessuno veniva abbandonato e chi se ne stava chiuso in casa riceveva giornalmente tutto quanto era necessario per sopravvivere, a partire dagli alimenti.

Nella stragrande maggioranza dei paesi occidentali le quarantene hanno funzionato mediocremente o piuttosto male, soprattutto perché la gente veniva abbandonata a sé stessa: tanto è vero che oggi sappiamo che la mortalità è stata tanto più alta, quanto più poveri erano coloro che erano stati affetti dal virus.

Un’ultima considerazione: dall’inizio del 2020 la parola d’ordine della politica sanitaria cinese per la pandemia è stata «zero casi». Così anche ora, appena un qualche caso si manifesta in qualsiasi parte della Cina, le misure prese per circoscrivere l’infezione sono draconiane. A tutto ciò si aggiunge una campagna di vaccinazione, con i prodotti cinesi (probabilmente un po’ meno efficaci dei nostri migliori), che ha vaccinato con almeno una dose più di un miliardo di persone, ad un ritmo di 18 milioni di vaccinazioni al giorno (al momento in cui scriviamo queste note).

Qualcosa da imparare da come la Cina ha gestito la pandemia? Evidentemente sì. Ma non mi illudo che questi commenti possano modificare anche solo marginalmente la tipica strafottenza occidentale, intrisa di razzismo «anti-gialli», che si sta nuovamente ed in modo molto pericoloso diffondendo qui da noi.