I conflitti attualmente in corso sono grandi laboratori di R&D per il complesso bellico, dove ricerca e sviluppo stanno producendo una rivoluzione tecnologica. Nel teatro ucraino, ad esempio, è stato consacrato l’uso dei droni, dai turchi Bayraktar agli iraniani Shahed e quello dei droni nautici, le lance teleguidate per missioni di sabotaggio. 

Come molti aspetti delle nostre vite, la guerra futura è destinata ad essere sempre più automatizzata, ed il conflitto ucraino è di fatto combattuto in gran parte da droni kamikaze e missili intercettati da missili. Nel frattempo, Israele ha scatenato contro Gaza un imponente armamentario tecnologico, compresi sistemi di analisi dei dati via intelligenza artificiale per “l’acquisizione degli obbiettivi militari.” 

Sotto i nostri occhi – e al contempo, paradossalmente, lontano da sguardi indiscreti – proprio l’intelligenza artificiale applicata ad uccidere il nemico, si sta imponendo come nuovo paradigma sul campo di battaglia senza che vi sia alcun vero dibattitto sulle conseguenze etiche o pratiche. Ed una cosa è chiara: nella “nuova guerra” le vittime saranno comunque umane, la loro sofferenza resa semmai più insopportabile dal fatto che ad infliggerla potranno essere stati dei robot.

Questo non sembra tuttavia preoccupare gli imprenditori della guerra high-tech, già protesi agli enormi profitti che presagisce il nuovo settore bellico-tecnologico. “I successi ottenuti da Russia ed Ucraina dimostrano che le armi autonome sono destinate a sostituire carri armati, artiglieria e mortai,” ha affermato Eric Schmidt, ex amministratore di Google, intervenuto al convegno “AI+ Summit” tenuto a Washington a fine novembre, aggiungendo che le armi del futuro saranno “potenti piattaforme di software.” Del tutto d’accordo i generali del Pentagono che si preparano a quello che considerano il futuro inevitabile: la guerra di algoritmo contro algoritmo. Già dal 2017 il Pentagono ha stabilito a Silicon Valley, un dipartimento preposto allo sviluppo accelerato di armamenti di ultima generazione dal nome poco rassicurante di Algorithmic Warfare Cross-Functional Team. L’obbiettivo è di interfacciare con gli ingegneri delle aziende tecnologiche per assicurarsi la supremazia nelle applicazioni militari dell’intelligenza artificiale, specie nel quadro della concorrenza con la Cina, principale avversaria per l’egemonia globale. 

Per contrastarla, il dipartimento della difesa USA ha avviato, ad esempio, l’iniziativa denominata Replicator, con lo scopo, come definito lo scorso agosto dalla viceministra per la difesa , Kathleen Hicks, di “sviluppare sistemi autonomi a fondo perduto in migliaia di unità entro 18-24 mesi.” Le parole chiave nel gergo burocratico sono “autonomi” e “a fondo perduto,” entrambi riferiti ad armamenti in grado di operare indipendentemente da controllori umani, ed eventualmente “sacrificabili,” come ad esempio droni kamikaze con capacità di intelligenza artificiale. 

Prima del suo pensionamento, il mese scorso, l’ex capo di stato americano, generale Mark Milley, ha dichiarato che “siamo di fronte ad un cambiamento fondamentale e senza precedenti della carattere della guerra, e la nostra finestra per mantenere un duraturo vantaggio competitivo si sta chiudendo.” Intervistato da Axios, il generale David Petraeus, ha ugualmente affermato che navi, carri armati ed aerei dovranno venire sostituiti in fretta da sistemi leggeri ed autonomi a cui “un operatore umano potrà semplicemente impartire l’ordine di andare ed eseguire le direttive del proprio programma.”

Di fatto la conversione è già buon punto, prima che vi sia stato alcun significativo dibattito in merito. Da un rapporto dell’Onu, risulta che almeno una prima operazione interamente “autonoma” di macchine contro combattenti in carne e ossa sia stata portata a termine nel 2020 in Libia, quando droni esplosivi forniti dalla Turchia al governo di Tripoli avrebbero attaccato «di loro volontà» le milizie orientali di Khalifa Haftar in ritirata. I quadrirotori di classe Kargu-2 prodotti dalla STM sono in grado di librarsi in volo e poi selezionare in autonomia obiettivi nemici su cui esplodere, cioè cosiddetti “fire and forget”.

Da anni, d’altronde, DARPA, l’agenzia per i progetti di ricerca avanzata di difesa del Pentagono, sta lavorando a sistemi di IA “sostitutivi del apporto umano” per il combattimento aereo. Già nel 2020 aveva raggiunto l’obbiettivo di una vittoria della IA su un avversario umano in un simulatore di volo. Lo scorso febbraio, nella base aeronautica di Edwards, nel deserto californiano, un’intelligenza artificiale ha pilotato autonomamente, per la prima volta, un vero caccia F16. 

Perse nell’entusiasmo di questo complesso militare-industriale-tecnologico sono le perplessità sulla sicurezza di sistemi ad intelligenza artificiale, notoriamente inaffidabili anche nelle applicazioni civili. Eppure non mancano gli avvertimenti, come quello lanciato dal colonnello e direttore del centro di intelligenza artificiale della US Air Force presso l’MIT, Tucker “Cinco” Hamilton che già nell’agosto 2022, ha detto di una missione (simulata) di un drone programmato per distruggere le antiaeree nemiche. Quando l’operatore umano ha tentato di revocare manualmente le direttive, il drone lo ha classificato come un atto di sabotaggio della missione primaria e ha “deciso” di neutralizzare l’interferenza bombardando la torre (virtuale) dei controllori umani. 

La prospettiva dei “robot assassini” fa inevitabilmente balenare scenari da Terminator. Soprattutto se è vero, come avvertono molti esperti, che ci avviciniamo alla soglia in cui l’auto apprendimento (machine learning) potrebbe diminuire la comprensione e l’effettivo controllo, che gli operatori riescono ad esercitare sulle macchine.

Malgrado questo, nessuno stato ha seriamente preso in considerazione una moratoria in materia di armi “intelligenti,” simile a quelle istituite per quelle chimiche o nucleari. Come avviene nelle corse agli armamenti, ogni spesa è anzi giustificata, per cercare di “arrivare primi.” L’imponente complesso militare-industriale americano – paese che nell’ultima finanziaria per la difesa ha stanziato la somma di 886 miliardi di dollari (più 110 miliardi di assistenza militare a Ucraina e Israele), è già di fatto impegnato in questa pericolosa scommessa.

Da diversi mesi, nel volatile teatro medio orientale, sono ad esempio schierati centinaia di droni Triton. Prodotti dalla Ocean Aero, questi natanti hanno l’aspetto di siluri lunghi tre metri, progettati per navigare in autonomia, alimentati da pannelli solari e sospinti da una vela ad ala, possono incrociare per settimane o mesi le acque del Mar Rosso e del Golfo Persico per monitorare in particolare i movimenti iraniani tramite le cinque telecamere di bordo e la funzionalità 5G. Non solo, i Triton possono convertirsi in sottomarini ed essere armati con esplosivo. Soprattutto non necessitano di un operatore umano ma sono in grado di compiere le missioni assegnate, con modalità decise dall’intelligenza artificiale di bordo, e in grado anche di coordinare azioni con molteplici unità (modalità “sciame”).

Sistemi simili sono prodotti da un intero settore di nuove aziende, attrezzate per costruire le nuove forniture richieste dal Pentagono. Una di queste, la Anduril (il nome deriva dalla spada di Aragorn nel “Signore degli Anelli), sugli appalti militari tecnologici ha imbastito un florido business, puntando in particolare sui sistemi autonomi. Fra questi vi è il Roadrunner, un drone ad intelligenza autonoma con decollo ed atterraggio verticale in grado di agire da caccia subsonico per distruggere nemici in modalità kamikaze ma è costruito per tornare alla base dopo aver completato missioni. La opzionale modalità IA, permette eventualmente al razzo di selezionare obbiettivi anche in autonomia. Il Roadrunner è, cioè, un lethal autonomous weapons systems (LAWS) che può essere programmato per decidere senza input di operatori umani chi attaccare e distruggere. La Anduril produce altri sistemi “anti-umani,” come sensori per l’individuazione di migranti clandestini e droni da guerra progettati per operare in “sciami” autonomi. Assieme ad altre 50, l’azienda fa parte di un consorzio che lavora allo sviluppo del Advanced Battle Management System (ABMS) un sistema capace di “integrare un teatro di guerra in una architettura digitale unificata di controllo delle operazioni.” 

Anche se ridotte a schermate da video gioco, però, e pienamente automatizzate, le guerre robotiche continueranno a mietere vittime fin troppo umane, a servizio dell’umana follia.