Il settore delle cure da diversi anni vanta il triste primato del maggior tasso di abbandono del mestiere. Lo specifico ramo delle cure di lunga durata, ha conosciuto un ulteriore balzo in Svizzera nel 2022, passando al 28% dal 24% nel 2021. Ogni mese, dalle 300 a 400 persone attive nelle cure abbandonano il mestiere. Una vera emorragia professionale. A fronte di un prevedibile aumento esponenziale della popolazione anziana (gli ottantenni nel 2040 saranno l’88% in più di oggi), il bisogno di manodopera nelle cure non potrà che essere elevato. È un’evidenza scientifica di un problema di società che non può essere ignorata dalla politica. Fermare la fuga dei lavoratori sanitari s’impone per qualsiasi politica intelligente voglia scongiurare il prevedibile problema a cui la società svizzera dovrà confrontarsi nel breve futuro. Per capire le possibili soluzioni, occorre però prima indagare le cause. È quanto ha fatto uno studio della Supsi coordinato dal professor Nicolas Pons-Vignon, voluto dal sindacato Unia. Al sindacalista Enrico Borelli abbiamo chiesto le ragioni che hanno spinto il sindacato ad occuparsi della problematica, mentre al professor Nicolas Pons-Vignon di riassumerci i punti salienti emersi dallo studio.

 

“Reimpostare le cure in funzione dei bisogni di personale e residenti”

Professor Nicolas Pons-Vignon, qual è stato il vostro punto di partenza per comprendere le ragioni dell’alto tasso di abbandono del personale?

Indagare la prospettiva del personale di cura per capire i motivi dell’insoddisfazione che lo porta ad abbandonare il mestiere, ad ammalarsi o a chiedere la riduzione del tempo di lavoro. Questo è stato il nostro approccio iniziale. Lo studio si è poi articolato sulle discussioni di gruppo in cui gli operatori di case di cura si sono confrontati tra loro, discutendo liberamente sulle cause del malessere. Per capire la crisi delle cure, dovevamo partire dai protagonisti, dando voce a chi vive quotidianamente la realtà professionale in grave crisi esistenziale. Nessuno meglio di loro poteva dare le risposte ai motivi del disagio della categoria. 

Quali sono gli aspetti cruciali emersi dalle loro testimonianze?

Dal nostro studio è emerso in modo evidente la centralità della questione dell’organizzazione del lavoro. Da una ventina d’anni nel ramo è stato implementato il new public management, il cui obiettivo è standardizzare il lavoro nelle case di anziani per far crescere la produttività, con l’intento di limitare l’aumento del personale legato alla crescente domanda di cura di lunga durata. A ciascun compito di presa a carico è attribuito un tempo preciso entro il quale il dipendente deve svolgerlo. L’organizzazione del lavoro è dunque molto rigida, simile alla fabbrica. Vi è però una differenza sostanziale. In fabbrica l’organizzazione mira a ridurre l’imprevisto, ad evitare tutto quel che rallenta la produzione. In una casa anziani, dove al centro del lavoro non vi sono macchinari ma esseri umani, l’imprevisto è ricorrente. E lo sarà ancor di più negli anni a venire con l’aumento di residenti in età sempre più avanzata o con patologie cognitive importanti quali l’Alzheimer, in forte crescita con l’aumento della speranza di vita. 

Il personale soffre molto da questa impostazione dell’organizzazione del lavoro. Non avere il tempo sufficiente da dedicare alla relazione col paziente, ai loro bisogni, genera una forte frustrazione nei dipendenti. Ciò è emerso chiaramente dai colloqui dello studio. La frustrazione generata dall’impostazione incentrata sulla produttività è forse il fattore prevalente della crisi del personale. 

Un osservatore esterno si sarebbe potuto immaginare la questione salariale o le difficili condizioni di lavoro, magari pensando alla turnistica…

Dei migliori salari e delle migliori condizioni d’impiego sono certamente necessari, in particolare per le assistenti di cura i cui stipendi sono molto bassi. Ma la fonte di sofferenza più alta deriva proprio dall’amarezza di non poter svolgere bene il proprio lavoro. L’attuale organizzazione del lavoro genera frustrazione nel personale che sovente sfocia in un burnout o nell’abbandono della professione. Se la persona si assenta perché deve curare l’esaurimento, i suoi compiti in reparto saranno a carico del personale rimanente, col rischio di provocare a sua volta altre situazioni di burnout. È un circolo vizioso. Siamo giunti alla conclusione che la crisi del personale sia assolutamente normale dato il contesto. 


Qual è invece l’impatto dell’attuale organizzazione del lavoro sui residenti?

Per rispondere, condivido una testimonianza di un operatore espressa durante le discussioni collettive. Una mattina, un anziano chiede di non essere lavato, poiché non sente la necessità. Il tempo “risparmiato” l’anziano chiede sia impiegato per una cosa precisa: parlare con l’operatore. Un esempio sintomatico di quanto l’aspirazione maggiore di molti residenti delle case anziane è la relazione umana, il sentirsi vivi interagendo con altri esseri umani. Ciò è comprovato da numerosi studi sul tema. Le conseguenze del razionamento dei tempi imposti al personale nello svolgere determinati compiti, in definitiva le pagano gli anziani. Se all’inizio della mia giornata lavorativa “perderò” dieci minuti per lavare l’anziano a seguito di un fatto imprevisto, avrò dieci minuti in meno da dedicare al prossimo compito. Ciò mi costringerà a correre nei successivi compiti, “razionando” i tempi. Razionando le cure, finirò per agevolare una sorta di dipendenza degli anziani, diminuendo la loro capacità di autonomia. Ad esempio, negli spostamenti lo lascerò sulla sedia a rotelle invece di sorvegliarlo mentre cammina lentamente, “razionando” così il tempo. La conseguenza sarà che l’anziano non camminerà mai più autonomamente perché ormai si sarà disabituato. 

Nello studio intravvedete delle possibili soluzioni alla crisi delle cure?

La soluzione passa dal ripensamento totale dell’organizzazione del lavoro, dal reimpostare le cure in funzione dei bisogni del personale e dei residenti. Uno degli aspetti centrali emersi dallo studio è la predominanza dell’approccio medico al sociale. Ma la casa anziani non è un luogo di cure acute. È un posto dove si può vivere anche per molti anni, vedi decenni. Una buona cura non è semplicemente tenere un corpo in vita, va ben oltre. La relazione sociale è determinante. Se mettiamo la prospettiva del personale al centro dell’organizzazione delle cure, si potrebbe rispondere meglio ai bisogni dei residenti. Poiché nessuno meglio di loro li conosce. E un personale soddisfatto più difficilmente abbandonerebbe il mestiere. Nuove persone sarebbero attratte dalla professione. S’interromperebbe così il circolo vizioso che attualmente provoca la carenza di personale e un alto tasso d’abbandono della professione.

In questa logica, assume molta importanza il processo partecipativo del personale curante di lunga durata nella redazione del Manifesto delle cure. Un manifesto in cui siano indicate le rivendicazioni principali di chi lavora nel settore, col fine di migliorare l’intero sistema delle cure a benefico all’intera società. 

Per leggere lo studio integrale: 
https://www.supsi.ch/documents/d/deass/finalgutepflege-report

 

Il sindacato: “Le istanze delle lavoratrici nelle cure investono l’intera società”

Enrico Borelli, perché Unia ha deciso di occuparsi dei lavoratori di questo settore?

È evidente che le cure, la sanità in generale, sia un settore strategico per il funzionamento dell’intera società. Il Covid lo ha dimostrato e l’evoluzione demografica lo conferma.
Un settore in cui i lavoratori si trovano in una situazione estremamente difficile. Il tasso di turnover si attesta al 28%. Le persone non ce la fanno più e abbandonano il mestiere. Se guardiamo le sfide future che attendono il settore, dove solo nella case anziani si stima una crescita di 56mila letti supplementari, l’alto tasso d’abbandono attuale non può che preoccupare.
Le pressanti condizioni di lavoro sono anche il risultato dell’assenza di una organizzazione collettiva dei lavoratori in questo ramo.
C’è bisogno di sindacato a fronte delle problematiche vissute dal personale. Inoltre, per un sindacato proiettato verso il futuro, questo settore permette di sviluppare delle campagne di società. Come dimostra lo studio condotto dalla Supsi, il nesso tra le condizioni di lavoro nelle cure e la qualità delle cure erogate è evidente. È dunque nell’interesse dell’intera cittadinanza far sì che le condizioni di lavoro nelle cure migliorino. Quest’approccio impone la costruzione di alleanze per arrivare all’obiettivo, poiché solo unendo le forze si potrà realizzare la pressione politica necessaria per dare le giuste risposte al diritto alla sanità inalienabile.


Rivendicare delle migliori condizioni per i lavoratori delle cure significa confrontarsi coi datori di lavoro diretti e le autorità politiche, responsabili dei finanziamenti in ambito sanitario.

Sì, dovremmo muoverci sul doppio binario. Da un lato promuovere un certo discorso con i datori di lavoro, dall’altro una pressione politica su cantoni e Confederazione. La sanità elvetica è federalista, delegata ai Cantoni. Questo impone una strategia d’azione diversa da quella classica. Penso al recente sciopero nella sanità nazionale inglese. In Svizzera bisogna confrontarsi con i cantoni, benché i problemi siano comuni. È una sfida supplementare a cui saremo confrontati. Il nodo centrale è il sottofinanziamento delle cure che investe sia ospedali che case anziani. L’ente pubblico dovrà aumentare gli investimenti e i finanziamenti. Il sistema delle cure dovrà essere una delle priorità dell’agenda politica. Già oggi una parte del problema viene scaricata sui familiari curanti, chiamati ad assolvere compiti in assenza di un sistema capace di farvi fronte. Oggi ci sono più di un milione di familiari curanti ad occuparsi di un lavoro d’assistenza sempre più difficile da conciliare col lavoro retribuito. A rischio vi è la coesione sociale che rischia d’implodere. Non si potranno creare migliaia di case anziani e servizi spitex, ma andranno forzatamente riconosciuti il ruolo dei familiari curanti altrimenti la società crolla. 


In un parlamento dominato dalle lobby della sanità, la battaglia politica rischia di essere l’ostacolo maggiore… 

Lo abbiamo visto con l’iniziativa sulle cure forti, plebiscitata dal popolo quasi tre anni fa a cui la politica non ha ancora dato le giuste risposte. Ora dovrà essere posto in consultazione il pacchetto due dell’iniziativa riguardante le condizioni d’impiego. Su questo cercheremo di aprire al personale la consultazione. Il Manifesto delle cure a cui si sta lavorando con la partecipazione del personale darà tutta una serie di piste per uscire dalla situazione emergenziale. Quel che è chiaro è che la pressione sulla politica e sull’ente pubblico non dovrà mai venir meno. Una società che non mette al centro delle sue preoccupazioni la sanità, non ha un grande futuro. 


Ha accennato al Manifesto delle Cure. Come sta andando il progetto?

Coi lavoratori verranno creati dei focus group sul rapporto dal quale uscirà il Manifesto. L’idea è di presentarlo e discuterlo con ampi segmenti di società, dai ricercatori ai pensionati, per costruire un percorso comune di alleanza per arrivare a porre la questione al centro dell’agenda politica. Il sindacato può giocare un ruolo, ma da solo non basta. Nessuna organizzazione ha la forza per imprimere la svolta necessaria nel settore. Bisogna farlo uniti e farlo rapidamente. La crisi del settore e le sfide importanti a cui è sottoposto, sono urgenti ed emergenziali.