LOS ANGELES – A due mesi dall’insediamento del regime nazional populista di Donald Trump gli Stati Uniti sono un paese per molti versi irriconoscibile. Globalmente l’America trumpista si comporta da superpotenza canaglia, assentando poderose spallate all’ordine geopolitico liberale degli ultimi 80 anni, minacciando alleati storici ed ipotizzando annessioni i di intere nazioni sovrane, volenti o nolenti, perché “nell’interesse nazionale”. Ove non si ipotizzano invasioni militari la guerra viene condotta in campo commerciale con dazi impugnati come randelli imposti unilateralmente, rimandati, aboliti poi raddoppiati, caotico percorso a zigzag che minaccia di accartocciare i mercati. Un sondaggio del Wall Street Journal rivela che il 70% dei dirigenti USA prevedono una recessione. 

Mentre il mondo fa i conti col paradosso dell’“isolazionismo egemonico” di Trump, il paese affronta una crisi costituzionale ormai apertamente sfociata, con l’amministrazione che ignora le sentenze dei tribunali contro la decimazione attuata dal DOGE, il ministero ombra per “l’ottimizzazione” diretto da Elon Musk. La scure, anzi la motosega di Musk, bizzarra figura di “presidente associato”, ha colpito a ritmo forsennato l’apparato dello stato. Amputazioni che non solo hanno sottratto al Congresso il ruolo di supervisione parlamentare imposto dalla costituzione, ma ha stroncato milioni di carriere e capovolto vite a mezzo email secondo il manuale di ottimizzazione di Silicon Valley. E l’idea di stato-azienda da gestire come consociata da un governo di oligarchi sembra prevalere in ogni ambito, con i tagli sempre più vicini al cuore del welfare: il sistema di sanità e pensioni istituito negli anni 30.

Stessa sorte è toccata a dozzine di agenzie, dalla meteorologia ai parchi nazionali, agenzie per il clima, ricerca scientifica e sanità, queste ultime affidate all’anti vax Robert Kennendy Jr. Lo scalpo della ricerca come trofeo della “vittoria” nelle guerre culturali equivale allo strangolamento, paradossalmente, di tutto ciò che ha rappresentato l’ottimismo della New Frontier kennediana e significa, per gli USA, scardinare una parte intrinseca della propria identità come superpotenza scientifica ed innovativa. Nella “grande purificazione” gli scienziati sono denunciati e derisi come “expert class.” Vengono diramate direttive con termini proscritti che è vietato utilizzare nei rapporti e vengono sabotati gli archivi statistici come il BEA (economia) NOAA (clima e meteorologia) CDC (salute). Più che colpi mortali allo stato amministrativo somigliano a fatali karakiri. Negli Stati Uniti del nuovo oscurantismo si sono costituite reti di scienziati per copiare e mettere in sicurezza dati di ricerca della comunità scientifica mondiale. 

Un programma shock anche se prevedibile, anzi scritto e pubblicato. Meno scontata forse, la rapidità e l’alacrità con cui sono state implementate le raccomandazioni del famigerato Project 2025, il programma stilato dai think tank iper liberisti per “decostruire” lo stato ammnistrativo. Valga l’esempio della cooperazione internazionale smantellata e chiusa – compresi licenziamento in tronco dell’organico al completo e rimozione delle scritte dalla facciata – in meno di una settimana. La USAID è stata scelta per valore simbolico di una cooperazione col mondo in via di sviluppo che non ha più alcun posto nella dottrina del America First, una nazione che mira apparentemente alla supremazia fine a se stessa.

Si tratta però solo dell’inizio. Allo stesso modo è in via di smantellamento l’intero impianto normativo. Con logica orwelliana, la nuova funzione dell’agenzia per la protezione ambientale (EPA), ad esempio, è ora di implementare politiche favorevoli all’industria e le lobby petrolifere. L’agenzia ha comunicato che verranno abrogati tutti i limiti all’inquinamento industriale e sulla qualità dell’aria e delle acque. Si smantellano in sostanza 50 anni di ambientalismo: cultura, attivismo, politiche normative in cui gli USA a partire dagli anni ’70 hanno guidato l’occidente. Si profila invece un paese che torna ai livelli di inquinamento precedenti alle riforme in cui è stata leader internazionale. Di fronte alla vera crisi epocale del pianeta, il leader scientifico e industriale abdica ogni leadership e torna ad un paradossale modello degli idrocarburi per i prossini 100 anni. 

In queste decisioni, come nel caso della guerra commerciale, vi è un inspiegabile impeto autolesionista. Con politiche oscurantiste che sembrano a tratti parte di una vendetta personale contro il paese, si abbandona il concetto stesso di progresso e di modernità – anche questo d’accordo con il disegno del Project 2025, espressione di due convergenti fazioni di fanatismo iperliberista e integralismo religioso, ugualmente nemiche del razionalismo.

Il costo umano di questo metodo “maoista” di azzeramento è enorme. Stando a Project 2025 l’obbiettivo è l’esonero della quasi totalità degli impiegati pubblici (circa due milioni di persone). Si è cioè ben oltre il compimento della visione reaganiana dello stato minimo come propedeutico ai profitti privati. La spesa pubblica per Musk ed suoi accoliti è per definizione uno spreco superfluo, e l’epurazione ha un sapore invariabilmente punitivo. Quando gli (ormai ex) impiegati della USAID sono stati riammessi nei locali da cui erano stati espulsi, hanno avuto 15 minuti per raccogliere gli effetti personali e sparire. Molti, pubblicamente definiti profittatori da Musk e Trump, sono usciti in lacrime, e d’altronde Russel Vought, architetto del Project 2025 (e attuale capo del dipartimento per la gestione del bilancio) l’aveva messo nero su bianco: “I burocrati devono essere traumatizzati.” La cifra ed il tono della politica che emana dallo studio ovale sono la polemica ed il rancore, quelle di un regime che deve metter in riga il paese. Non è un caso se anche un economista premio Nobel del calibro di Paul Krugman scelga un termine come “auto golpe.”

Dietro al costante elogio della “meritocrazia” emerge sempre più chiaro un modello oligarchico di stampo putiniano. In nessuna precedente amministrazione si è giunti ad un simile livello di plateale corruzione ed “amichettismo.” Il presidente ha istallato una nuora a capo del GOP, un suocero (pregiudicato ambasciatore in Francia, un genero consigliere, una mezza dozzina di vedette della Fox News in posizioni ministeriali o a capo di agenzie federali. Gli Stati Uniti “meritocratici” sono in realtà banco di prova per le radicali teorie di darwinismo sociale che animano il capitalismo di Silicon Valley. Le riforme imposte spesso da ragazzi ventenni inviati da Musk nei ministeri hanno il sapore di una rappresaglia al termine di una guerra di classe vinta dai ricchi. Sia il “neoreazionario digitlale” Peter Thiel che il nazional sovranista Steve Bannon condividono dopotutto l’idea intimamente nazista di una società cui giovano periodiche “tosature” atte a “sfrondare i rami secchi” e poco produttivi. 


Le due anime della coalizione Maga condividono anche la ricetta per stravolgere gli Stati Uniti da democrazia liberale (e libersita) in una monarco-repubblica securitaria fondata su una perenne conflittualità come pretesto di controllo sociale. Dietro alle riforme “ammnistrative” si intravede una coercizione dai toni più foschi. In questo programma si inquadra lo straordinario annuncio di metà marzo per cui l’FBI preparerebbe a perseguire penalmente, per frode pubblica, le agenzie preposte far fronte alla crisi climatica. Dato che il governone nega l’esistenza i finanziamenti pubblici regolarmente stanziati a questo scopo dai precedenti governi costituirebbero fondi illeciti.
La repressione non è necessariamente predicata su sillogismi di tale efferato nonsenso. L’amministrazione ha dimostrato di fare affidamento su metodi più sbrigativi per quanto riguarda la soppressione del dissenso. Lo ha scoperto Mahmoud Khalil, Palestinese, laureato recente della Columbia University e su quel campus fra i leader lo scorso anno del movimento contro la guerra a Gaza. Una sera mentre rincasava con la moglie incinta di otto mesi due agenti in borghese l’hanno seguito nel suo appartamento, prelevato e richiuso in un centro di detenzione in Louisiana senza possibilità di interpellare un legale. 

Khalil è stato informato della revoca immediata del permesso di soggiorno e dell’espulsione dal paese per aver “leso la politica estera del paese” stando all’ordine firmato personalmente dal segretario di stato Marco Rubio, un documento eccezionale per come calpesta il tanto vantato principio di libertà di parole garantita dal primo emendamento della costituzione. La “sparizione” di Khalil come in un qualunque gulag totalitario, per il rato di opinione è stato invece un inequivocabile messaggio, quello ribadito in un tweet in cui Trump ha affermato che “gli agitatori negli atenei non verranno tollerati ma arrestati ed espulsi”.

L’utilizzo dei fondi stanziati dal Congresso come arma di ricatto è ormai prassi. Proprio alla Columbia, ad esempio, sono stati congelati $400 milioni in contributi federali. Successivamente il governo Trump ha fatto recapitare una lettera alla rettrice dell’università, in cui ha dettato le condizioni se l’ateneo vuole sperare di riavere parte dei fondi. Nella lista, punizioni severe (sospensione pluriennali o espulsione) degli studenti coinvolti nelle contestazioni pro Palestina, istituzione di un ufficio disciplinare speciale, divieto di maschere o obbligo di esibire nome e numero di matricola visibile e il “commissariamento” delle facoltà di studi mediorientali, sud asiatici e africani. 

Le minacce hanno sortito l’effetto desiderato. Nel panico molte università si sono precipitate ad annunciare nuove commissioni di indagine interne nel tentativo di appagare gli ispettori governativi. Sembra davvero incredibile ma nelle università americane, fabbriche di Nobel e meta ambita di studenti di mezzo mondo, è calato in poche settimane un gelo che sembrava fino a ieri appartenere al massimo ai libri di testo sul totalitarismo. Mentre da Washington si diramano direttive sulle “parole vietate” nei rapporti accademici, docenti e ricercatori si interrogano su ciò che è lecito e consentito dire o includere nei programmi didattici, ben coscienti che è attivo da qualche giorno un numero verde per segnalare anonimamente eventuali “trasgressioni” che possono costare un licenziamento o la sospensione di una borsa di ricerca.

Anche la libera informazione è nel mirino del regime. Trump ha personalmente querelato diverse testate contestando scelte editoriali e perfino di montaggio che ritiene “sfavorevoli.” L’authority per le telecomunicazioni (FCC) ha fatto lo stesso contestando pregiudizi eccessivamente “liberal” di numerosi giornali ed emittenti che in molti casi si sono adeguate patteggiando multe in segno di ossequio. La capitolazione del Washington Post, dove l’editore-oligarca Jeff ha annunciato una nuova linea editoriale “favorevole alla libera espressione ed il libero mercato,” è particolarmente emblematica per il ruolo avuto dalla testata di Woodward e di Bernstein nello scandalo Watergate, momento fulgido di stampa come garante contro lo strapotere e la corruzione, che dall’osservatorio odierno sembra uno sbiadito anacronismo.

È sempre più evidente insomma, quanto drammatica, irrevocabile e fatale sia stata l’elezione del 5 novembre. Non è eccessivo considerare ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti alla stregua di una vera e propria “controriforma” un’involuzione epocale che revoca molti dei cardini portanti del progetto americano e, alla vigilia del suo 250mo anniversario è in procinto di deviarlo radicalmente dalla sua traiettoria storica.

In questa situazione caotica è latitante un’efficace opposizione da parte di un partito democratico che pare smarrito e allo sbando dinnanzi al golpe, incapace di raccogliere nel momento più critico, il retaggio di contestazione resistenza, ad esempio del movimento per i diritti civili. Nel vuoto emergono per ora proteste sporadiche di cittadini esasperati come quelle mirate ai concessionari Tesla (per risposta il governo ha già annuncicato di volerle criminalizzare come “terrorismo interno”).

Quello che sembra certo è che l’attuale ritmo distruttivo difficilmente sarà sostenibile sul lungo o anche sul medio termine, non fosse per la potenziale destabilizzazione economica che si profila plausibilmente. Ne è escluso che esista il progetto per cercare lo scontro sociale in un’ottica di ulteriori strette autoritarie. 

Nel frattempo, vale l’appello lanciato il mese scorso da Jane Fonda: “Vi siete mai chiesti, guardando quei documentari storici sui movimenti del passato, sui diritti civili o l’apartheid o Stonewall – cosa avreste fatto voi allora? Se sareste stati (coraggiosi abbastanza da) marciare? Beh, non c’è più bisogno di chiederselo. Il nostro “momento documentario” lo stiamo vivendo oggi. È qui e non è una prova!”