Martin Pfister è il nuovo consigliere federale e sostituisce la dimissionaria Viola Amherd. Per il partito democristiano, oggi Alleanza del centro, è andata secondo canoni noti della cristianità: chi entra papa al conclave esce cardinale. Lo storico di Zugo ha battuto il contadino di San Gallo, Markus Ritter. Curioso, tra l’altro, che il sangallese non è laureato, non conosce l’inglese, poco il francese e niente italiano, farebbe fatica ad essere assunto per una posizione media in qualsiasi azienda o amministrazione. Un’elezione tranquilla con il solito rituale che non manca di un certo fascino vintage, a partire dall’ora d’inizio: rigorosamente le otto-zero-zero. Torna alla memoria la battuta del consigliere federale socialista Willy Ritschard: “Gli Svizzeri si alzano presto ma si svegliano tardi”.
La banda dei quattro
Niente di nuovo sotto la cupola di Palazzo federale. Concordanza, collegialità, compromesso, formula quasi magica. La sinistra rossoverde ha rispettato la tradizione e ha votato scegliendo fra i candidati proposti dal partito di turno, bocciando il lobbista difensore dei pesticidi. In un paio di occasioni i socialisti hanno dovuto accontentarsi di consiglieri federali eletti dai partiti borghesi, ma anche in quei casi la maggioranza del PS ha sempre difeso la partecipazione al Governo. Forse sarebbe utile riflettere, di nuovo, sul senso di questa partecipazione. Cosa ottiene la sinistra da un esecutivo che, di fatto, è diretto dalla coalizione PLR UDC? La “banda dei quattro”, due liberali e due udc, comanda come vuole, diretta dai due ministri più influenti: Karin Keller Sutter e Albert Rösti. Lo stesso presidente del Centro Gerhard Pfister, giustificando la sua scelta di non candidarsi al Consiglio federale, aveva detto che in queste condizioni, con l’alleanza di fatto PLR UDC, non valeva la pena fare il ministro.
Scopa nuova, scopa meglio?
Come si comporterà il neoletto ministro della difesa? Continuerà l’avvicinamento alla NATO iniziato da Viola Amherd? Come interpreterà la neutralità Pfister? La dimissionaria passerà alla storia per aver acquistato i caccia F-35 per sei miliardi di franchi, buttando alle ortiche l’iniziativa popolare che chiedeva di bloccarne l’acquisto. Il Dipartimento della difesa della protezione della popolazione e dello sport (DDPS) è confrontato con un lungo elenco di problemi, che potrebbero trasformarsi in scandali. Dimissioni dei vertici, sistemi informatici inefficaci, droni che non possono volare, incapacità a far di conto, truffe alla fabbrica di armi RUAG, sorveglianza dello spazio aereo che non funziona, ecc.
Restiamo sugli F-35. Dagli Stati Uniti giunge notizia che potrebbero costare più del previsto. Questo dettaglio, assieme alla conferma che il sistema informatico dei jet sarà controllato dal Pentagono e ad altre inefficienze da chiarire, comincia a preoccupare alcuni parlamentari. Meglio tardi che mai! Il copresidente del PS Cédric Wertmuth propone di rinunciare all’acquisto di questi gioiellini. Non ci sono penali, pare, se non si onora il contratto, ma una serie di spese. C’è chi ha proposto di acquistare i caccia M-346 dell’italiana Leonardo che costano la metà. Probabilmente, per le operazioni di polizia aerea della Svizzera (massima estensione est ovest km 348,4!) potrebbero bastare i nostri Pilatus, che in passato venivano venduti a paesi che poi li equipaggiavano con le bombe. (con 6 miliardi di franchi 600 Pilatus…) Oppure, come suggerisce Elon Musk, politico brutale ma tecnico geniale, puntare sui droni perché “solo gli idioti costruiscono i caccia F-35”.
Rossoverdi con l’elmetto
Intanto, a proposito di armamenti, di guerra e di riarmo, la Svizzera continua a marciare verso la NATO o comunque verso l’Unione europea, ormai in balia del nefasto progetto di riarmo della von der Leyen, con acquisti di armamenti soprattutto negli USA!
Il Consiglio nazionale ha appena approvato una dichiarazione “per una politica di sicurezza europea autonoma e un ruolo attivo della Svizzera”. Si dice che ”gli Stati europei devono assumersi in modo autonomo le loro responsabilità in materia di sicurezza” dimenticando che il nostro quasi generale Thomas Süssli ripeteva che in caso di crisi il nostro esercito in quindici giorni sarebbe stato fritto e avrebbe dovuto appoggiarsi alla NATO. Gli Stati europei, più o meno vassalli degli americani, nel panorama geopolitico odierno contano come il due di picche; l’Europa è disunita, non ha politica estera e tantomeno un esercito. Si è sempre affidata alla NATO e agli Stati Uniti, che in Europa hanno 80 mila soldati in 31 basi militari e 200 armi nucleari e non risulta che se ne stiano tornando a casa con armi e bagagli. L’Unione europea non è ancora riuscita a uniformare le prese elettriche, come ricorda Maurizio Crozza (è un comico, ma trattando d’Europa ci sta e informa meglio dei quotidiani mainstream), figuriamoci se riesce a mettere in piedi un esercito comune!
Dunque, il nostro Parlamento raccomanda al Consiglio federale “di esaminare ulteriori possibilità di cooperazione con l’Unione europea a livello di politica di sicurezza, in particolare nel quadro della Cooperazione strutturata permanente (PESCO)”. Anche la piccola Svizzera, che nelle ultime guerre mondiali si è comportata da ricettatrice, ora si lancia e si prepara al conflitto. E questa mirabile dichiarazione, che non ha niente di razionale, a chi la dobbiamo? Al socialista Fabian Molina e al verde Fabien Fivaz!! Ma i deputati rossoverdi non dovrebbero togliersi l’elmetto e occuparsi di sanità, di alloggi, del costo della vita, dell’emergenza climatica? Cioè dei temi che preoccupano i loro elettori?
Tesoretto nascosto
In questo contesto il Parlamento ha concesso quest’anno 530 milioni di franchi supplementari all’esercito, tagliando centinaia di milioni sull’aiuto allo sviluppo e sulla politica d’asilo. Si continua a predicare austerità. La ministra mani-di-forbice Karin Keller Sutter pianifica tagli, a Palazzo li chiamano “sgravi”, in una miriade di settori. E, naturalmente, il fatto che il bilancio della Confederazione per il 2024 abbia chiuso quasi in equilibrio non conta: invece dei previsti 2,6 miliardi di franchi di deficit, i conti hanno chiuso con un disavanzo di 80 milioni. Incapaci a far di conto o tattica per giustificare i tagli? Intanto il progetto di risparmi messo in consultazione – nato grazie alla collaborazione dell’ex sindacalista Serge Gaillard – prevede tagli di 2,7 miliardi nel 2027 e 3,6 miliardi nel 2028. Come se fossimo un paese sull’orlo della bancarotta, mentre siamo una delle nazioni più ricche al mondo con un debito pubblico basso che sfiora il 17% del PIL, mentre i maggiori paesi europei superano di gran lunga il 100%.
Risparmismo neoliberista
Vale la pena citare qualche “misura di sgravio applicabile dal 2027” delle 59 previste. Cooperazione internazionale, meno 107 milioni nel 2027, meno 167 milioni nel 2028. Fondo Nazionale svizzero per la ricerca, meno 131 milioni. Scuole universitarie cantonali, meno 120 milioni. Riduzione della partecipazione della Confederazione all’AVS, meno 204 milioni. Infrastruttura ferroviaria, meno 200 milioni. Sussidi per la politica climatica, meno 372,1 milioni. Gli ambienti della ricerca, della formazione e dell’innovazione hanno lanciato un grido d’allarme, affermando che i 460 milioni di tagli previsti complessivamente a partire dal 2027 avranno conseguenze nefaste per tutti e tre i settori interessati, mettendo in pericolo l’eccellenza raggiunta dalla Confederazione in campo scientifico. Un franco investito nella ricerca, ha detto Torsten Schwede, presidente del Consiglio del Fondo nazionale svizzero, genera un valore aggiunto economico compreso tra tre e cinque franchi.
Una politica di austerità in nome del freno all’indebitamento, una misura iniqua che penalizza ampi strati della popolazione e frena l’economia. E, intanto, la povertà aumenta!
Denaro e democrazia
Ci aspetta un anno tumultuoso. La situazione geopolitica mondiale non fa ben sperare, l’austerità elvetica a favore delle spese per le armi nemmeno, la tradizione diplomatica della Svizzera neutrale affossata, i rapporti con l’Unione europea da chiarire, i costi della sanità sempre più insostenibili per la popolazione più fragile, la povertà in aumento e i super ricchi sempre più ricchi. La sinistra rossoverde che si fa attrarre dal bellicismo.
La nostra democrazia semi diretta permette di correggere e limitare l’impatto della maggioranza di destra di Governo e Parlamento. Però alcuni dati sul finanziamento dei partiti fanno riflettere. Nel 2023 UBS ha versato 241 mila franchi all’UDC, 195 mila franchi al PLR, 173 mila al Centro e 66 mila ai Verdi liberali. Economiesuisse ha versato 249 mila franchi all’UDC, 295 mila al PLR e 395 mila al Centro. Credit Suisse, Swiss Life, Auto Schweiz hanno versato contributi di centinaia di migliaia di franchi ai partiti borghesi. I soldi condizionano la democrazia. Numerosi studi confermano che, pur ritenendo impossibile “acquistare una votazione”, “non si può escludere che il denaro investito in una campagna possa fare la differenza in certi casi specifici, quando il risultato del voto è particolarmente tirato”, afferma il politologo Pascal Sciarini, che aggiunge: “secondo uno studio del 2012 (Weber), ogni milione di franchi in più che una fazione è in grado di iniettare nella campagna in rapporto alla fazione opposta equivale a quasi due punti percentuali (1,7) al voto popolare, soprattutto per le iniziative e meno per i referendum”.
Con Parlamento e Governo di destra per la sinistra diventa essenziale ricorrere a iniziativa e referendum, fulcri della democrazia diretta. Strumenti che meritano la massima cura e che richiedono grande lavoro prima degli appuntamenti alle urne.