A seconda di chi si esprime, il nuovo presidente americano e la sua cricca, Elon Musk in testa, vengono tacciati di “fascismo”, “neofascismo”, “tecnofascismo”, “fascismo americano” e altri “fascismi” vari. Una lettura che troviamo anche nei nostri media: mentre sulla Regione ci si è chiesti (retoricamente) se Trump sia “il nuovo volto del fascismo”, un editoriale di questi Quaderni annunciava enfaticamente che con la nuova amministrazione USA “il tecnofascismo è servito”. Ma la categoria del fascismo è davvero adatta per descrivere l’ideologia e le politiche portate avanti dalla destra populista contemporanea, cioè da Trump e i suoi ammiratori europei (Blocher, Salvini, Le Pen, Orbán, Weidel, …) e sudamericani (Milei, Bolsonaro, …)? E, su un piano più strategico, l’accusa di fascismo è davvero il modo migliore per contrastare Trump e accoliti?
In diversi si sono lanciati in paragoni tra Trump e Hitler (o Mussolini), l’America di oggi e la Repubblica di Weimar degli anni 1930, l’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 e il Putsch di Monaco (o la Marcia su Roma). Ma si tratta per lo più di paragoni superficiali avanzati da giornalisti e politici, più raramente da accademici, che si focalizzano esclusivamente sugli elementi comuni tra trumpismo e fascismo (il culto dell’uomo forte, l’attitudine autoritaria, il razzismo), ignorandone al contempo le differenze. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’accusa di fascismo rivolta a Trump & co. rileva meno da una fine analisi storica e politologica che da una banale ed inflazionata reductio ad Hitlerum – il riflesso che porta a squalificare i propri avversari associandoli a Hitler e al fascismo in generale, praticato anche dalla destra populista.
Mettere in guardia contro l’uso dell’etichetta fascista per descrivere le politiche portate avanti dalla destra populista contemporanea non implica per forza di strizzare loro l’occhio o di minimizzarne la pericolosità. La rivista di sinistra radicale americana Jacobin, lodata anche in questi Quaderni, afferma da oltre dieci anni che è sbagliato accusare Trump di fascismo. Si tratta semmai di capirne meglio i progetti e di darsi gli strumenti per contrastarne l’agenda politica – anche quando questa viene portata avanti, in altre varianti e più o meno consapevolmente, da altri gruppi politici.
Bisogna sottolineare, anzitutto, che se la destra populista contemporanea condivide con il fascismo i tratti sopra elencati, si distingue da essa su due aspetti fondamentali: il ruolo dello Stato e la relazione di quest’ultimo con l’economia. Non proprio bruscolini. Il fascismo sosteneva uno Stato forte guidato da un partito unico, profondamente implicato nella vita dei cittadini e dell’economia, basato su un dominio imperiale formale. In conseguenza, il fascismo era essenzialmente keynesiano, in un’epoca in cui l’intervento dello Stato nell’economia andava affermandosi come un principio egemone, tanto sulla spinta del New Deal americano che dei piani quinquennali sovietici.
La destra populista contemporanea, invece, ambisce a ridurre lo Stato ai minimi termini, come dimostrato in modo limpido dai primi mesi di presidenza Trump, in particolare con il sedicente DOGE (Department of Government Efficiency, “dipartimento per l’efficienza governativa”) guidato da Musk, o dal governo di Javier Milei in Argentina. Lo Stato, nella loro prospettiva, deve avere il solo scopo di assicurare il più fluido funzionamento possibile dell’economia a beneficio del grande capitale nazionale (capitanato in America dalla Big Tech) e di reprimere le voci dissidenti, in particolare sul piano politico e sindacale. Si tratta insomma di un sistema che non necessita di un partito unico, né tanto meno di abolire le elezioni, ma che svuota di reale potere il processo democratico, lasciando che le decisioni che contano vengano prese dai capitani dell’informatica, della finanza e dell’industria. Più che con dei fascisti, siamo insomma confrontati con dei neoliberisti autoritari.
Il progetto politico di Trump & co. si inserisce in effetti nella piena continuità del neoliberismo portato avanti dalle precedenti amministrazioni americane e dall’Unione Europea, declinato in una versione nazionale ed autoritaria. A differenza dei neoliberisti tradizionali, tuttavia, il loro obiettivo principale non è l’instaurazione di un libero mercato globalizzato, ma la massimizzazione dei profitti del grande capitale nazionale in un quadro di libera concorrenza globale e nel quale i profitti dell’Occidente sono minacciati dalla competizione delle economie emergenti, in particolare i paesi dei BRICS+. Il ricorso ai dazi, peraltro fatto proprio anche dall’amministrazione Biden senza lo stesso clamore mediatico, va letto in questo senso. Per riprendere il titolo del nuovo libro dello storico canadese Quinn Slobodian, tra i massimi studiosi del neoliberismo, i membri la galassia libertaria che ruota attorno a Trump meritano quindi di essere qualificati come i “bastardi di Hayek”, figli illegittimi del pensiero neoliberale (Hayek’s Bastards. The Neoliberal Roots of the Populist Right, in uscita ad aprile).
Insomma, il progetto politico portato avanti da Trump e la sua cricca in America (e dai suoi corrispettivi in Europa e in America latina) è molto più insidioso, più subdolo, più pericoloso di un nuovo fascismo. Si tratta di una variante di un progetto politico già in corso da oltre quarant’anni in Occidente, parzialmente invisibile in virtù della sua egemonia culturale. Non è dunque un caso se ciò che balza all’occhio dei commentatori sono gli elementi che accomunano la destra populista contemporanea al fascismo, e non quelli in continuità con il neoliberismo egemone. E trattandosi di una variante di un’agenda politica già in corso e condivisa dalle élite occidentali, grande capitale e Unione Europea in primis, si tratta un progetto meno portato a incontrare delle opposizioni significative da parte del mondo economico e politico. Non per niente, i pesi massimi della Big Tech, potenziali principali beneficiari dell’agenda di Trump, si sono affrettati a rendere omaggio al nuovo presidente.
Dal punto di vista strategico, ci sono tre buone ragioni per non definire “fascisti” i partiti della destra populista contemporanea e preferivi piuttosto una categoria come quella dei “neoliberisti autoritari”. La prima è che l’accusa di fascismo è stata talmente banalizzata negli ultimi anni da aver perso tutta la sua efficacia. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che gridare “al fascio, al fascio!” non sta funzionando. Chi non lo avesse ancora capito, si svegli e si renda conto che Trump ha vinto il voto popolare alle elezioni dello scorso novembre dopo che i media han passato otto anni a martellare quest’accusa a reti unificate.
La seconda, è che accusare la destra populista di fascismo e di minaccia per l’ordine esistente non solo non aiuta, ma costituisce anche un assist clamoroso. Perché vuol dire presentare Trump & co. come una rottura con l’ordine neoliberale attuale e la miseria da esso prodotta, quando de facto, dazi o non dazi, ne riprendono le logiche più profonde e ne spingono all’estremo le dinamiche, accelerando l’indebolimento dello Stato e delle istituzioni democratiche (già in corso) in favore di un ordine neoliberale autoritario. Presentare la destra populista come un’alternativa all’ordine esistente, come peraltro fanno loro stessi, vuol dire fargli un favore enorme. Vuol dire spingere nelle loro braccia una fetta consistente dell’elettorato – cioè coloro che dalla globalizzazione neoliberale sono usciti ed escono tutt’ora perdenti, in particolare nelle classi popolari e nelle nuove generazioni. L’etichetta di “neoliberisti autoritari” permetterebbe di sbugiardare molto più facilmente Trump & co. agli occhi delle classi popolari che non quella di “fascisti”.
Da ultimo, insistere con la categoria del fascismo non ci aiuta a capire con chi abbiamo a che fare e rende la lotta molto più dura. Anzi, contribuisce ad occultare ulteriormente la minaccia posta dalle politiche neoliberali nei confronti della democrazia. Non son sofismi: non solo bisogna lottare contro la destra populista, ma ci si deve anche opporre a tutte le politiche neoliberiste che contribuiscono a svuotare di potere il processo democratico e quindi a far avanzare l’agenda politica di questi personaggi. Perché come ha recentemente riassunto Luciano Canfora, “l’ipocrisia della sinistra europea consiste nel rimproverare a Trump ciò che essa stessa fa quando va al governo”. Perché di politiche neoliberali che indeboliscono le istituzioni democratiche ne han sostenute e ne portano tuttora avanti anche i partiti progressisti europei. La trafila di scempi degli ultimi quarant’anni è interminabile, dal “tournant de la rigueur” di Mitterand all’annuncio, poche settimane fa, del governo laburista britannico guidato da Keir Starmer del taglio di migliaia di posti nell’amministrazione pubblica, in particolare nel settore sanitario. Un progetto, quest’ultimo, che il think tank Labour Together, vicino a Starmer e al suo “chief of staff” Morgan McSweeney, ha battezzato fieramente “project chainsaw” (progetto motosega), riprendendo esplicitamente l’immaginario di Musk e Milei, come riportato dal Guardian. Roba che strapperebbe gli applausi di Piero Marchesi, Sergio Morisoli e Paolo Pamini.
Se proprio si vuol dare del fascista a Trump e accoliti per sottolinearne il carattere autoritario e razzista, almeno lo si faccia con piena coscienza di chi si sta affrontando. Come fatto per esempio dal sindacalista Giorgio Cremaschi nel suo ultimo libro, Liberalfascismo, puntualmente passato sotto silenzio dai media italiani e ticinesi. Perché altrimenti alla fine vinceranno loro, i neoliberisti autoritari, i bastardi di Hayek.
Nota della RedazioneDamiano ha ragione nel dire che alle attuali forme di autoritarismo neo-liberista mancano quelle 2 caratteristiche del fascismo,anche perchè nel frattempo è di molto cambiato il ruolo dello Stato,che ha ora addirittura persa la sua prerogativa assoluta,quella di battere moneta. I movimenti sociali che soggiaciono a questa evoluzione sono però molto simili a quelli che 100 anni fa’ portarono al fascismo. La storia non si ripete mai al 100%,ma già Marx nel “18.Brumaio di Luigi Napoleone” aveva ben descritto come la borghesia, a seconda della situazione storica del momento,scelga per il suo dominio sullo Stato la variante relativamente democratica o quella autoritaria. Ulteriori contributi sul tema sono estremamente benvenuti. |