La battaglia più importante per la fine della guerra in Ucraina si sta svolgendo al telefono. I centralini della Casa Bianca sono impegnati costantemente a tessere una fitta rete di contatti con Mosca e Kiev per cercare di indirizzare ogni mossa, di fare in modo che nessuna carta si sposti nel castello che Donald Trump sta così faticosamente costruendo. Ma è un percorso fragile, viziato in partenza dal fatto che il principale negoziatore non ha davvero a cuore la pace, ma solo una soluzione di un conflitto che per gli Stati Uniti è diventato problematico e poco conveniente dal punto di vista economico. I due belligeranti al momento si prestano al gioco: accettano tutti gli appuntamenti fissati dallo Studio Ovale, rilasciano dichiarazioni piene di ottimismo e complimenti per la nuova amministrazione di Washington e poi restano a parlare per ore.
Ma dopo tre settimane di colloqui a che punto siamo? Per Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca: «non siamo mai stati così vicini alla pace e i progressi sono merito del presidente» Trump. Per quest’ultimo sia la telefonata con Putin sia quella con Zelensky «sono andate molto bene» e «siamo sulla strada giusta». Uno dei negoziatori designati dal tycoon, l’inviato speciale per il Medioriente Steve Witkoff – il quale ha preso il posto di Keith Kellogg, l’ideatore del «piano di pace per l’Ucraina», che è stato esautorato dalle trattative in quanto sgradito a Mosca perché troppo “filo-ucraino” – è stato più ottimista. «Credo che il cessate il fuoco tra Ucraina e Russia si potrebbe raggiungere entro un paio di settimane». Lunedì 24 marzo i «team tecnici» di Usa e Russia si sono dati appuntamento di nuovo in Arabia Saudita per proseguire nel percorso avviato durante la telefonata con il Cremlino. Tuttavia, il Consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, in un’intervista alla Fox, ha sottolineato che «Putin è un personaggio duro. Sappiamo bene con chi abbiamo a che fare» e i colloqui con Mosca sono complessi e basati sulla regola «fidarsi, ma verificare». Per Waltz i due presidenti hanno iniziato a parlare di vari temi: dai prossimi passi per riallacciare relazioni bilaterali stabili alla pacificazione dell’Europa orientale, passando per le questioni operative legate al conflitto in Ucraina, il cessate il fuoco, gli scambi di prigionieri e, non meno importanti per entrambi, gli accordi commerciali.
A tale proposito in questa seconda fase delle trattative si è parlato di meno dell’Accordo sulle terre rare, ma non per questo gli Usa hanno cambiato idea. L’obiettivo di Trump è quello di trasformare l’Ucraina post-bellica in una sorta di enorme riserva mineraria per gli Stati Uniti, senza dimenticare le commesse da miliardi per la ricostruzione del Paese e la gestione delle risorse sopra il suolo. Di queste si parla molto poco, ma è utile ricordare che Kiev era uno dei granai del mondo con i suoi campi fertilissimi che tingevano d’oro la terra a perdita d’occhio. In tre anni di guerra il settore agro-alimentare è stato messo in ginocchio, i contadini sono fuggiti, i macchinari distrutti e molti campi ora sono minati. Tuttavia, in un’epoca in cui l’incertezza alimentare è tornata alla ribalta (si pensi alle importazioni di uova richieste da Washington ultimamente), avere a disposizione una riserva come quella ucraina diventa un asset strategico importante quanto i minerali rari. E, a quanto pare, Trump non ha intenzione di fermarsi a questi ambiti. Durante la telefonata con Zelensky, nella quale lo ha informato dei «dettagli» discussi con Putin il giorno prima, il tycoon ha ipotizzato che «la proprietà americana delle centrali nucleari ucraine rappresenterebbe la migliore protezione per tale infrastruttura e il miglior supporto per la rete energetica locale». Zelensky ha fatto buon viso a cattivo gioco, è obbligato dopo l’alterco in mondovisione durante la conferenza stampa a Washington. I fedelissimi di Trump gliel’hanno detto chiaramente: «basta passi falsi, o si fa come diciamo noi o siete fuori». E il presidente ucraino non può permettersi di essere estromesso da una trattativa che riguarderà non solo la fine della guerra, ma il futuro del suo Paese per le generazioni a venire oltre al suo futuro personale.
Mentre Trump distribuisce messaggi carichi d’ottimismo come fossero bollini di un premio a punti, il Cremlino si gode il momento che aspettava da anni. Vladimir Putin non è più il paria della politica internazionale, non «il mostro sanguinario, il dittatore, il nemico dell’Occidente» descritto da Joe Biden. Al contrario, è un «partner» con il quale «bisogna parlare» non solo per porre fine al conflitto in corso, ma perché «possiamo fare grandi cose insieme, per i nostri popoli e per il mondo intero». Non sbaglia, dunque, chi ritiene che il più grande merito di Trump agli occhi di Mosca sia stato quello di ristabilire il blasone internazionale della Russia. Gli stessi colloqui tra le due delegazioni sono organizzati e portati avanti come se fossimo tornati a prima della caduta del Muro di Berlino e le sorti del mondo si potessero decidere in una stanza. Alcuni ritengono che sia una strategia di Washington dare a Putin tutta l’importanza che chiede per blandirlo al fine di addolcirlo. Altri sottolineano che si tratta semplicemente del modus operandi di Trump: personalizzare tutto in modo da potersi intestare ogni eventuale successo. È il protagonismo eletto a sistema che con il Cremlino, almeno per ora, sta funzionando. Il culto del capo che Trump vuole instillare nel suo Paese si sta coniugando bene con quello già presente in Russia ma, e qui sta il vulnus, quanto questi due sistemi reggeranno prima di collidere non ci è dato saperlo.
In ogni caso, finché i rapporti restano «buoni e costruttivi», Putin e i suoi possono permettersi di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Tutto il mondo aspettava la telefonata con Trump per sapere se il Cremlino avrebbe accettato la tregua di 30 giorni che gli Usa avevano imposto all’Ucraina a Gedda. Ma quel documento è sparito completamente dalle dichiarazioni finali delle rispettive segreterie. Al suo posto i due presidenti hanno annunciato un’interruzione di 30 giorni degli attacchi alle infrastrutture energetiche. Tale sospensione, tra l’altro, non è ancora entrata davvero in vigore dato che i due belligeranti continuano a scambiarsi attacchi di missili e droni dalla distanza. Il motivo di questo accordo al ribasso, presentato comunque da Trump come un «passo fondamentale verso la risoluzione del conflitto», è che alla Russia al momento non conviene affatto che si depongano le armi. Il suo esercito è in avanzata nel Kursk, la regione frontaliera parzialmente occupata dagli ucraini con una manovra a sorpresa lo scorso agosto, ed è quasi riuscito a riconquistare tutto il territorio precedentemente controllato dai reparti di Kiev. I vertici ucraini avevano intenzione di utilizzare quei 1600 kmq circa come moneta di scambio con alcuni dei territori occupati dai russi, ma quel progetto è di fatto naufragato. I generali russi hanno imposto un’accelerazione poderosa alle operazioni in quell’area dislocando diverse divisioni, fino a 70mila soldati secondo alcune rilevazioni, incluso il contingente dei 12mila nord-coreani che sta volta (come scrive il Washington post) si starebbero comportando molto meglio rispetto alla loro prima apparizione. Inoltre, con una manovra alle spalle degli ucraini, i soldati di Putin sono riusciti a prendere il controllo di parte dell’autostrada che le truppe di Kiev usavano per i rifornimenti. Senza rinforzi e armi, in schiacciante inferiorità numerica e senza copertura contro la martellante artiglieria nemica, agli ucraini è restato ben poco da fare se non ritirarsi in fretta. Quando il Kursk sarà interamente riconquistato è lecito attendersi una nuova offensiva nel Donetsk meridionale, nei pressi dell’area di Pokrovsk che è al centro delle mire degli invasori da oltre sette mesi.
È quasi scontato che i prossimi 30 giorni, ammesso che la temporalità decisa durante i colloqui telefonici sarà rispettata, saranno terribili per i soldati ucraini al fronte. L’ordine di Putin è stato quello di attaccare con tutte le forze disponibili, occupare territori in fretta, anche parzialmente. Mettere bandierine sulla porzione di mappa più ampia possibile in modo da poter ottenere il massimo dai negoziati. Anche perché i vertici politici di Mosca hanno dichiarato più volte che non hanno intenzione di restituire le regioni occupate all’Ucraina. Putin le ha addirittura inserite nella costituzione come parte integrante del territorio della Federazione russa e per privarsene dovrà ottenere una ricca offerta, o almeno qualcosa che possa essere presentato in patria come una vittoria inequivocabile. Oltre alla mancata restituzione dei territori occupati negli ultimi tre anni, al momento le richieste della Russia presentate alla stampa sono molto dure: l’Ucraina dovrà essere neutrale, senza la possibilità di entrare nella Nato o in altre alleanze militari occidentali, il suo esercito dovrà essere ridotto dal milione circa di oggi a 80mila uomini, il numero di carri armati, caccia, batterie missilistiche e relative munizioni ridimensionato significativamente. Inoltre Zelensky e i suoi dovranno essere allontanati dalle posizioni di potere. In breve: una capitolazione.
Non stupisce, quindi, che Kiev abbia più volte dichiarato che non accetterà mai queste condizioni. Ma così come Mosca chiede il massimo per ottenere abbastanza, l’Ucraina dirà no a tutto per non cedere troppo. Il punto però è che in questo gioco delle parti comune a ogni trattativa Zelensky è in una condizione di palese svantaggio. Si è visto chiaramente dopo la visita a Washington: non appena gli Usa hanno minacciato di abbandonarlo, il presidente ucraino è stato costretto a fare ammenda e ad accettare il percorso negoziale imposto da Washington per arrivare a un cessate il fuoco definitivo. La principale leva che resta agli ucraini al momento è quella di puntare sulle ricchezze naturali del Paese ed è proprio ciò che Zelensky e i suoi fedelissimi stanno facendo. L’altra opzione, ovvero affidarsi completamente all’Unione Europea, purtroppo per Kiev si è rivelata impraticabile. Non solo Bruxelles non ha alcun ascendente su Mosca al momento, ma i 27 al loro interno sono divisi e non è detto che le dichiarazioni di oggi si tramutino in azioni concrete al momento del bisogno. In Ucraina l’hanno capito non possono che sperare che le relazioni tra Trump e Putin a un certo punto si incrinino al punto da costringere Washington a rinnovargli il sostegno militare e politico. Ma nell’attesa di quel momento che potrebbe non arrivare, l’imperativo per Zelensky è limitare i danni e prepararsi al momento in cui incontrerà i russi stando ben attento alle insidie che iniziano a nascere alle sue spalle tra i gruppi che dopo la fine della guerra vorranno prendere il controllo del Paese.