“Il desiderio del presidente Trump di ricollocare in massa i palestinesi dalla Striscia di Gaza in Egitto e Giordania è tanto illegale quanto utopistico”, afferma il professore di diritto internazionale Ardi Imseis della Queens University. E la relatrice speciale dell’Onu per la Palestina, Francesca Albanese commentando “l’imprevedibilità” che qualcuno attribuisce a un presidente che invece è molto prevedibile nelle sue politiche e idee razziste e suprematiste aggiunge che “La pulizia etnica è tutto fuorché un pensiero fuori dagli schemi, non importa come lo si confeziona. È illegale, immorale e irresponsabile”. Queste e altre opinioni e reazioni di condanna, a cominciare ovviamente da quelle dei palestinesi, sono seguite al piano proposto il 26 gennaio da Trump di “ripulire” Gaza trasferendo i suoi due milioni di abitanti in Egitto e Giordania. La pulizia etnica, la Nakba, avvenuta nel 1948, spiegata e raccontata dallo storico Ilan Pappe, è l’incubo ricorrente di tutti i palestinesi, non solo nei Territori occupati. E torna ad affacciarsi sulla scena, presentata prima da qualche ministro israeliano e ora dal tycoon tornato alla Casa Bianca come soluzione del “problema palestinese”.

Solo l’impraticabilità apparente di una nuova Nakba, per l’opposizione dei paesi arabi confinanti e per il sostegno crescente di cui godono i palestinesi in larghi settori dell’opinione pubblica internazionale (non i governi), rende, per ora, irrealizzabile la soluzione avanzata dalla Casa Bianca. Altrimenti cacciare via la popolazione indigena, per “ragioni di sicurezza” o con altri pretesti, e insediare nella sua terra coloni di un altro popolo probabilmente sarebbe già un dato di fatto. I settler israeliani da tempo premono alle porte di Gaza per ricostruire i loro insediamenti che Ariel Sharon fece smantellare nel 2005. Per questo hanno accolto con rabbia la decisione del premier di destra Benyamin Netanyahu di andare all’accordo di cessate il fuoco a Gaza. Vogliono una guerra permanente per “distruggere Hamas” anche se il movimento islamico, non appena è cominciata la tregua il mese scorso, ha dimostrato con ampie parate di essere vivo e vegeto e sempre in controllo della Striscia. Le bombe Made in Usa sganciate da Israele su Gaza per oltre 15 mesi dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 (1.200 morti israeliani, 251 ostaggi), hanno ucciso oltre 47mila palestinesi, un conteggio che secondo la prestigiosa rivista The Lancet sottostima di oltre il 40% le morti effettive, con la maggior parte delle vittime costituite da donne, bambini e anziani. Quasi tutta Gaza è rasa al suolo. Il 27 gennaio, sulla base dell’accordo di cessate il fuoco, centinaia di migliaia di sfollati che da un anno, sotto i bombardamenti, venivano sballottati da un posto all’altro del sud di Gaza, sono tornati al nord dove hanno trovato solo cumuli di macerie, le loro case non ci sono più e la ricostruzione è un miraggio. Eppure, ai coloni e a chi li appoggia nel governo Netanyahu, non basta la catastrofe che si è abbattuta su Gaza a causa dell’offensiva israeliana. L’obiettivo è colonizzare e cacciare via la popolazione palestinese. I sostenitori della guerra ad oltranza che per oltre un anno hanno visto in Benyamin Netanyahu il loro faro -, come i ministri ultranazionalisti religiosi Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, erano addirittura pronti a rinunciare al ritorno a casa dei circa cento ostaggi nelle mani di Hamas pur di proseguire la guerra che, ad un certo punto, si è allargata a Libano, Yemen, Iran e ha avuto come conseguenza (in apparenza indiretta) la caduta del regime siriano di Bashar Assad.

Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas ha bloccato, almeno temporaneamente, questi piani. La maggioranza degli israeliani che, dopo il 7 ottobre 2023, aveva incitato ad attaccare e distruggere Hamas, quindi Gaza, comprende ora che avere martellato quel piccolo lembo di terra non è servito praticamente a nulla. Gli ostaggi che Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra dicevano di voler liberare con la forza militare, dalla fine di gennaio stanno tornando a casa grazie alla tregua e allo scambio di prigionieri con Hamas. Sanno che l’accordo poteva essere siglato all’inizio dell’estate perché il testo è simile a quello proposto dall’ex presidente Joe Biden. Si sarebbe potuta evitare l’uccisione di molte migliaia di palestinesi e la morte di oltre 100 soldati israeliani, peraltro caduti in combattimento nell’ultima offensiva, tra ottobre e gennaio, nel nord di Gaza finalizzata a cacciare via i residenti palestinesi ai quali invece nei giorni scorsi è stato consentito di tornare. Tutto ciò appare incomprensibile e irrazionale se non si considera l’attacco contro Gaza lanciato nell’ottobre 2023 una terribile vendetta contro due milioni di civili. Uomini, donne e bambini che hanno pagato il conto dell’attacco del 7 ottobre nel sud di Israele. Hamas, infatti, è sempre lì e festeggia quella che considera una vittoria della resistenza sul potente esercito di Israele. Il movimento islamico ha già reclutato migliaia di nuovi miliziani in sostituzione di quelli uccisi da Israele. E ha subito solo in parte i contraccolpi, in termini di consenso interno, delle conseguenze catastrofiche per Gaza dell’attacco del 7 ottobre.

I palestinesi in ogni caso non abbandoneranno mai Gaza volontariamente. Solo un uso massiccio della forza sul terreno potrebbe costringerli a riversarsi in massa in Egitto. Tuttavia, non è escluso che questo scenario possa presentarsi in futuro, anche nei prossimi mesi, perché la destra al potere in Israele ripete che l’offensiva riprenderà. Mentre scriviamo la tregua regge e prosegue lo scambio tra ostaggi israeliani e 1900 prigionieri politici palestinesi, ma l’accordo raggiunto in Qatar non offre molte speranze di una fine effettiva del bagno di sangue. Riprendere la guerra fa l’interesse di molte parti in Israele. Netanyahu ha avuto anche ragioni personali per continuarla ad oltranza, oltre gli obiettivi militari. La guerra ha ritardato il procedimento giudiziario nei suoi confronti per corruzione e l’inchiesta ufficiale sui gravi errori di valutazione che ha commesso prima del 7 ottobre. Il suo potere dipende anche dalla tenuta della coalizione con l’estrema destra la cui principale idea è negare ogni diritto ai palestinesi. Netanyahu probabilmente crede di poter manovrare a suo favore in una situazione complessa. Proverà a combinare il sostegno ottenuto dal ritorno a casa entro la fine di febbraio di 33 ostaggi a Gaza (su un totale 97, tra vivi e morti) e le richieste della componente di estrema destra, rappresentata in questa fase dal Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich più che Itamar Ben Gvir che per protesta contro la tregua ha dato dimissioni tattiche allo scopo di tornare più forte nel governo. Il fine sarebbe quello di rimpatriare gli ostaggi più fragili come si aspetta l’opinione pubblica per poi ridare slancio all’assalto militare contro Gaza come pretendono gli alleati più radicali alla scadenza del cessate il fuoco di sei settimane o per il fallimento dei negoziati sulle fasi due e tre. Oppure, potrebbe trovare delle scuse per riprendere l’attacco prima. Israele, ad esempio, ha ripetutamente violato l’accordo di cessate il fuoco in Libano raggiunto lo scorso novembre e, poco prima della sua scadenza, Netanyahu ha annunciato che non avrebbe ritirato l’esercito dal sud del Paese dei cedri, attribuendo la colpa alle forze armate libanesi che non si erano ancora dispiegate completamente a ridosso del confine. Quindi il 26 gennaio, l’esercito israeliano ha ucciso 22 libanesi, che con altre migliaia di sfollati tornavano ai loro villaggi al sud, affermando di aver aperto il fuoco su “persone sospette” e “miliziani di Hezbollah”. Trump si è attribuito gran parte del merito dell’accordo di tregua – il suo inviato Witkof, si dice, avrebbe “costretto” Israele ad accettare la cessazione delle ostilità -, ma allo stesso tempo ha già detto di ritenere improbabile che l’accordo proceda alle fasi due e tre.

Due fattori potrebbero spingere il presidente americano ad avallare una nuova offensiva. La sua base politica evangelica che appoggia senza condizioni Tel Aviv e le pressioni di coloni e destra radicale israeliana che tanti sostenitori hanno nella sua Amministrazione. Mike Waltz, consigliere per la sicurezza nazionale, ha già detto in più occasioni che “Hamas deve essere distrutto”, in totale sintonia con il governo israeliano. La ripresa della guerra, con l’appoggio Usa, potrebbe abbinarsi al sostegno di Trump al piano di annessione a Israele della Cisgiordania palestinese che Netanyahu e i suoi alleati tengono nel cassetto da anni. Senza dimenticare le pressioni che la nuova Amministrazione americana eserciterà sull’Arabia saudita affinché normalizzi le relazioni con Tel Aviv, senza dare peso alla distruzione di Gaza, alle aspirazioni palestinesi e al diritto internazionale.

La guerra non si è davvero fermata. L’offensiva militare è stata sospesa a Gaza e due giorni dopo è cominciata in Cisgiordania dove le forze armate israeliane “a scopo di sicurezza” hanno invaso il campo profughi di Jenin conducendo rastrellamenti, demolizioni e distruzioni e facendo numerosi morti e feriti. E ha stretto questo territorio palestinese occupato dal 1967 nella morsa del suo esercito ostacolando in ogni modo la vita della popolazione civile. Ai coloni invece è stata lasciata piena libertà di movimento. Negli ultimi 15 mesi in Cisgiordania è andato avanti un conflitto a bassa intensità che ha ucciso più di 800 palestinesi, secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari. E ai raid dell’esercito si sono aggiunti i 1.400 dei coloni. L’ultima escalation è collegata al cessate il fuoco a Gaza. Per Netanyahu intensificare le operazioni militari in Cisgiordania è un modo per placare le proteste della destra per il cessate il fuoco e la scarcerazione di prigionieri palestinesi e per distogliere l’attenzione dal fallimento del suo obiettivo dichiarato di distruggere Hamas.

La Cisgiordania è sempre stata la parte centrale e più preziosa dell’espansionismo coloniale israeliano. Più di 600.000 coloni sono stati insediati in Cisgiordania e a Gerusalemme Est per ragioni ideologiche e religiose e per rendere irrealizzabile la creazione di uno Stato palestinese. E la colonizzazione non potrà che svilupparsi con Trump alla Casa Bianca. Durante il suo primo mandato, il presidente affermò che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania non violavano il diritto internazionale e ora sarà altrettanto deferente nei confronti del governo israeliano. Appena si è insediato Trump ha revocato le sanzioni che Joe Biden aveva decretato nei confronti di alcuni coloni autori di gravi violenze contro i palestinesi. E una delle sue prime nomine è stata quella ad ambasciatore in Israele di Mike Huckabee, ministro battista e fervente sionista, che ha più volte affermato che la Cisgiordania appartiene a Israele per decisione di Dio. La rinnovata alleanza tra Trump e Netanyahu, tuttavia, si scontra con la determinazione palestinese a resistere all’oppressione. Come è avvenuto a Gaza, le operazioni militari e i raid non produrranno altri risultati se non quello di aggravare il conflitto e rendere ancora più popolari, da una parte e dall’altra, le forze più estreme contrarie a soluzioni di compromesso.