Quella delineata da Donald Trump, nel suo discorso di insediamento alla casa Bianca, può essere definita una Dottrina Monroe 2. L’America che conta per The Donald è quella del Nord, dove il Canada dovrebbe decidersi a far parte degli Usa e la Groenlandia esserne un’appendice gelata (ma ricca in minerali).

Il Sud è il “patio di casa”. Composto da una serie di «paesi di merda» (Trump prima versione) e altri che invece devono essere funzionali alla centralità degli States, ovvero alla politica del MAGA, Make America Great Again. Soprattutto il canale di Panama, dove passa il flusso (navale) di mercanzie provenienti dall’Oceano Pacifico e diretto verso la costa Est degli Usa, la più industrializzata.

«Lo abbiamo costruito noi... ce lo riprenderemo» ha tuonato Trump. Anzi, per estensione, i potenti del Nord vogliono prendersi anche il Golfo del Messico, che sarà ribattezzato Golfo di America (nella concezione della dottrina Monroe, ovvero Golfo degli Stati Uniti). Con dentro Cuba (il «frutto maturo» che già alla fine del 1800 doveva cadere nelle mani degli Stati uniti) e riducendo il Messico - mediante il nearshoring - a una sorta di fabbrica decentrata, ma controllata dai grandi oligarchi del Nord.

Per ottenere questi ultimi due obiettivi, il giorno stesso del suo insediamento The Donald ha firmato decreti presidenziali per dichiarare «terroristi esteri» i cartelli della droga messicani e per rendere carta straccia quelli firmati sei giorni prima da Joe Biden per togliere Cuba dalla lista dei Paesi che favoriscono il terrorismo e per eliminare altre pesanti sanzioni (Titolo III della legge Helms-Burton e la “lista ristretta” di militari cubani sanzionati).

L’inviato speciale per l’America latina dell’Amministrazione Trump2, il cubano-americano Mauricio Claver-Carone e il suo capo diretto, il nuovo segretario di Stato (anche lui cubano-americano) Marco Rubio, hanno poi annunciato un rinnovato strangolamento finanziario-economico-commerciale di Cuba per aggravarne la crisi e indurre un cambio di governo. Ovvero per abbattere il socialismo cubano.

Dichiarare terroristi i narcos messicani implica la militarizzazione della frontiera sud degli Usa (dove sono stati già inviati 1500 soldati) e la possibilità di interventi militari contro i più potenti cartelli. Sono già filtrati i piani del Pentagono per bombardare con droni le basi del Cartello di Sinaloa. Il modello dovrebbe essere il Plan Colombia, firmato nel 1999 dal presidente Bill Clinton e dal suo collega colombiano Andrés Pastrana, che portò alla costruzione di otto basi americane in Colombia, alla distruzione con veleni di piantagioni di coca, e all’alleanza dei cartelli colombiani con quelli messicani.

Più in generale, la nuova amministrazione Trump progetta una rinegoziazione del T-Mec, l’accordo tra Messico, Usa e Canada firmato proprio dal Trump1 e ora giudicato troppo favorevole al Messico: i prodotti fabbricati in Messico, anche se usano componenti cinesi, possono essere classificati come Made in Mexico e godere di dazi preferenziali. Trump2 minaccia dazi fino al 25%.

Per il resto del subcontinente americano, vi saranno gli alleati più fidati, il presidente salvadoregno Nayib Bukele, l’anarco-capitalista-libertario presidente argentino Javier Milei, capofila dell’estrema destra latinoamericana (che ambisce a un patto di libero scambio con gli Usa) e l’ecuadoriano Daniel Noboa che ha già accettato una sorta di Plan-Ecuador, militarizzando il paese, con il contributo di truppe Usa, contro il crimine organizzato (in buona parte favorito dai suoi predecessori della destra ecuadoriana) e le infiltrazioni dei narcos colombiani.

Se Noboa riuscirà (con la forza?) a essere rieletto nelle presidenziali del 9 febbraio, verranno conclusi i lavori per la nuova base concessa agli Usa nelle isole Galapagos. Una base formalmente per combattere le organizzazioni narco-criminali ma, data la sua dislocazione geografica, di pronto intervento Usa in qualsiasi crisi nel subcontinente.

Un terzo alleato-subordinato di sempre, il Perù, deve invece essere rimesso in riga, perché la presidente golpista Dina Boluarte alla fine dell’anno scorso ha firmato con il presidente cinese Xi Jinping un accordo che affida alla cinese Cosco Shipping Company la costruzione del mega porto-hub a Chancay, 78 km a nord di Lima. Una decisione giudicata «ostile» visto che il maggior pericolo per gli Usa è proprio «la penetrazione» cinese in America latina.

Dei paesi latinoamericani con governi progressisti, il Cile del presidente e l’Uruguay riconquistato dal Frente amplio non preoccupano. In Colombia il presidente Gustavo Petro è sotto schiaffo delle destre anche per l’aggressività delle organizzazioni guerrigliere ELN e la frazione dissidente delle FARC.

Con il Venezuela sotto la quarta presidenza di Nicolás Maduro sembrano essere già iniziati i contatti, basati soprattutto sul petrolio. Anche se nel suo discorso Trump ha affermato di puntare soprattutto sul greggio prodotto negli Usa e di «non aver bisogno» di quello venezuelano.

Più critici saranno i rapporti col Brasile, che quest’anno ha la presidenza di turno dei Brics+, il gruppo di paesi che hanno centro nel vecchio (2001) asse Brasile,Russia, India, Cina e Sud Africa e che è ormai integrato da 30 Stati di tre continenti: rappresenta quasi la metà della popolazione mondiale, concorre al 37,6% del Pil e al 60% della produzione mondiale di petrolio.

Cuba viene giudicata come l’anello debole dello schieramento nemico, sul quale i superfalchi cubano-americani (cinque in tutto) dell’Amministrazione Trump intendono esercitare la massima pressione.

L’isola attraversa una triplice crisi, economica, produttiva e di modello (socialista). A livello macroeconomico è afflitta da un alto debito – circa 30 miliardi di dollari – con riserve monetarie estremamente ridotte, poco più di 600 milioni, e un alto deficit fiscale. La produzione di beni e servizi è drammaticamente insufficiente, con il paese che importa i principali prodotti alimentari (con un costo vicino ai 2 miliardi di dollari) e il 60% del petrolio che consuma. La produzione di energia elettrica è in forte crisi con black-out generalizzati, l’inflazione stabilmente a due cifre.

Il dollaro si cambia nel mercato parallelo attorno ai 340 pesos (quello ufficiale è di 24 pesos per le imprese statali e 124 pesos per i privati. La previsione di una crescita del 2% del Pil per il 2024 è stata disattesa e la decisione del governo di non rendere di fatto pubblico il risultato dell’anno appena trascorso fa supporre che la crescita sia stata vicina allo zero o addirittura in negativo. Mentre per l’anno in corso viene prevista una crescita (ipotetica) dell’1%.

I segnali più evidenti di questa profonda sofferenza sono l’emigrazione, soprattutto dei giovani, e il basso tasso delle nascite. Le stime del noto demografo “indipendente” Juan Carlos Albizu-Campos affermano che i cubani emigrati negli ultimi due-tre anni sono almeno 1,8 milioni. E che, dunque, la popolazione di Cuba è scesa parecchio sotto i dieci milioni (ultimo censimento dava la cifra di 11,2 milioni di abitanti nell’isola).

Vi è poco da stupirsi se in questo drammatico bilancio da «economia di guerra» si è registrato a Cuba un aumento della microcriminalità, ma anche di tensioni sociali (uno dei sintomi: l’aumento dei femminicidi). Ancor più preoccupante l’ammissione di un deciso aumento delle proteste popolari, nella quasi totalità – è bene sottolinearlo – spontanee e rivolte alla mancanza di prodotti specifici, luce, gas, acqua o all’aumento dei prezzi. Segnale questo che esiste un malcontento che va allargandosi. E anche dell’esistenza di un bacino di opposizione, la quale però non è in grado di organizzare politicamente il dissenso e il malcontento popolare in un programma di transizione credibile, nonostante i massicci finanziamenti degli Usa alle centrali della contra in Florida e anche a Madrid e a Buenos Aires.

La novità che dà respiro è che, con l’inizio dell’anno, Cuba è stata associata al gruppo dei Brics+, la cui presidenza di turno quest’anno è del Brasile. Si prevede, dunque, che si intensificheranno gli sforzi per promuovere l’uso di monete nazionali negli interscambi fra i paesi del gruppo, più che dar vita a una moneta alternativa al dollaro. Insomma un’attenuazione di tono, in modo da evitare un aperto confronto politico con gli Usa (ammesso che esso non provenga, come probabile, dalla nuova Amministrazione Trump, che, tra l’altro, ha già minacciato drastici aumenti dei dazi)

Proprio questa connotazione dei Brics+ come avanguardia del “Sud globale”, ma non programmaticamente antagonista a Usa e alleati, rappresenta un importante atout per Cuba. È, infatti, la prima volta dal 1964 – quando abbandonò il Fondo monetario internazionale, FMI – che l’isola si incorpora in un’entità internazionale integrata nell’economia globale, con profilo occidentale e ampie proiezioni.

Per il vertice cubano – come espresso del ministro degli Esteri Bruno Rodríguez – l’associazione ai Brics+ rappresenta «il riconoscimento del ruolo e delle potenzialità di Cuba» e soprattutto un modo concreto per offrirle spazi e opportunità per diversificare le sue possibilità economiche e finanziarie. In sostanza la possibilità di nuovi mercati in paesi lontani e meno sottoposti ai ricatti degli Usa e senza usare il dollaro come moneta di scambio. Inoltre Cuba potrà sfruttare i servizi della Nuova banca di sviluppo (NDB) entità che non impone condizioni, pressioni, subordinazione né minacce finanziarie per i prestiti a differenza del Fondo monetario internazionale o della Banca mondiale.

«È un’istanza che apre nuove opportunità commerciali, di investimenti e di cooperazione. Dovremo saperne approfittare», ha affermato il ministro Rodríguez. Concretamente il contributo di Cuba potrà basarsi – a parte di forniture di nikel e cobalto – sul suo sviluppo di biotecnologie, la produzione di medicinali e sulle sue risorse umane (alta percentuale di laureati) che garantiscono all’isola «la capacità di promuovere cooperazione scientifica e tecnologica». Inoltre l’isola con il suo porto in acque profonde a Mariel può convertirsi nel centro dei Caraibi per la espansione commerciale (via nave) delle mercanzie di tutte le nazioni del gruppo.

L’incognita è proprio se Cuba saprà approfittare di questa opportunità, intraprendendo i passi necessari per rimettere in moto un sistema produttivo in crisi sistemica da anni. Dunque, il governo deve progettare riforme di struttura del socialismo cubano, ben lungi dall’essere quel «socialismo prospero e sostenibile» che era l’obiettivo delle riforme economico-sociali dei Lineamenti, varate nel 2011 sotto la spinta del riformismo promosso da Raúl Castro (e tuttora non compiute). Una buona notizia, in questa direzione è stata l’aver ottenuto la possibilità di rinegoziare il debito estero col Club di Parigi.