Quando a pronunciare una frase del genere è il temutissimo tenente generale Kirylo Budanov, il capo dell’intelligence militare di Kiev (Gru), vuol dire che la situazione è davvero a un punto di svolta per la guerra nell’Europa dell’Est.

Il tanto atteso “effetto Trump” in queste prime settimane dopo l’insediamento alla Casa Bianca non ha prodotto ancora cambiamenti sostanziali. La promessa elettorale di «terminare la guerra in 24 ore» è stata accantonata già da tempo e tra alcuni dei fedelissimi del neo-presidente, secondo il Financial Times, si sarebbe diffusa l’idea che ci vorranno dei mesi per porre fine al conflitto. Sul tavolo, almeno a livello ufficiale, resta il piano elaborato da Keith Kellogg, l’ex-generale scelto da Trump come inviato speciale per trovare un accordo tra Mosca e Kiev: «diminuzione drastica delle forniture all’Ucraina se Zelensky dovesse rifiutarsi di trattare, ma aumento delle stesse se a rifiutarsi di sedersi al tavolo fosse Putin». Un aut aut bidirezionale che vuole ottenere il massimo risultato nel più breve tempo possibile. Per la Russia, che sul campo di battaglia mantiene l’iniziativa offensiva da mesi, qualsiasi trattativa non potrà prescindere da due punti fissi: congelamento dei confini lungo le attuali linee del fronte e neutralità dell’Ucraina al di fuori dalla Nato. Il primo punto sarebbe più pratico che formale, Putin potrebbe rivendicare la “liberazione” di una parte dei territori “russofoni” ucraini – due termini cari al capo del Cremlino – ma le carte geografiche resterebbero invariate. Si rinvierebbe così la questione dei confini a data da destinarsi o, come ipotizzato da Zelensky alla fine dell’anno scorso, a una risoluzione diplomatica futura sotto l’egida dell’Ue e degli Usa. Certo, per Kiev sarebbe molto difficile ammettere di aver perso oltre il 27% del proprio territorio quando per mesi sia i vertici politici nazionali sia gli alleati hanno ribadito l’indivisibilità dell’Ucraina. Eppure la realtà del campo di battaglia obbliga a prendere decisioni inedite in tempi brevi.

Secondo Ukrainska Pravda, che cita un sondaggio condotto a dicembre dalla società Socis: «il numero di ucraini che vorrebbero negoziati immediati e la fine della guerra è recentemente aumentato notevolmente fino a raggiungere il 50% della popolazione». Sebbene non si possano ignorare le difficoltà connaturate alla realizzazione di una ricerca del genere in un Paese in guerra, non è la prima volta che si effettuano tali studi ed è interessante osservare che le percentuali di coloro che chiedono la fine delle ostilità sono le più alte mai registrate. Particolarmente degno di nota è l’aumento, dall’8% della popolazione al 20% circa, di coloro che sarebbero disposti ad accettare il congelamento della guerra lungo le attuali linee del fronte. Per il governo ucraino, tuttavia, una pace così concepita sarebbe una resa edulcorata. Senza la Nato alle spalle, con il Pentagono orientato verso l’isolazionismo e la Casa Bianca meno ostile verso Vladimir Putin, Kiev rischia di trovarsi in una crisi di difficile soluzione. Soprattutto se consideriamo che il 40% degli aiuti militari all’esercito ucraino sono arrivati (e arrivano) da oltreoceano.

Pochi giorni dopo il suo insediamento ufficiale come Segretario di stato, Marco Rubio, ha annunciato la sospensione per 90 giorni di tutti i programmi di aiuti esteri degli Usa. Una parte dell’opinione pubblica ha subito riscontrato in questa mossa un chiaro messaggio a Zelensky e l’inizio del disimpegno militare degli Usa. Ma a fine gennaio il presidente ucraino ha smentito la notizia: «non c’è stata alcuna interruzione degli aiuti militari da parte degli Usa». Il capo di stato non ha specificato se invece gli aiuti umanitari fossero stati interrotti, dichiarando che al momento è concentrato sulle forniture belliche. Le quali sono vitali in questa fase così difficile per la guerra nell’est.

Dal 1° dicembre al 31 gennaio i russi sono avanzati molto in profondità sul campo, soprattutto nel Donetsk meridionale. In alcune aree sono riusciti a occupare anche 40 km lineari di terreno e hanno espugnato alcune piccole roccaforti come Kurakhove, e Velyka Novosilka. In altri punti, come a Pokrovsk, dove oramai si combatte da sei mesi, la strategia è stata quella di aggirare l’ostacolo provando a non impantanarsi in assedi estenuanti come in passato (Mariupol, Bakhmut, Avdiivka, per citare solo alcuni nomi). Occupate le posizioni necessarie a bersagliare il centro abitato con l’artiglieria e a far decollare i droni, per i difensori di Pokrovsk c’è stato ben poco da fare. La bandiera gialloblu sventola ancora sull’imponente palazzo del municipio in stile neo-realista sovietico, ma così come l’edificio è semi-distrutto e vuoto, Pokrovsk è il fantasma di ciò che era mesi fa. La stazione ferroviaria è inutilizzabile: rifornimenti e rinforzi non possono più arrivare direttamente ma devono fermarsi decine di chilometri prima. Allo stesso modo i feriti e i civili che intendono evacuare devono percorrere molta più strada per allontanarsi dalle prime linee. La schiacciante superiorità aerea dei russi in quest’area ha reso inagibili le tre arterie autostradali che passavano da Pokrovsk e, nei fatti, l’obiettivo dei generali russi di spezzare la catena di approvvigionamento ucraina nei pressi del fronte è già riuscito. Ora i soldati di Kiev sono costretti a lunghissime deviazioni su strade pessime per raggiungere le stesse postazioni che prima erano a meno di un’ora. A ovest di Pokrovsk si continuano a scavare trincee per prevenire un eventuale sfondamento nemico che, ad oggi, non si è ancora verificato. Gli ucraini soffrono la spinta russa su un fronte di circa 350 km ma, per ora, tengono le posizioni e arretrano ordinati. I russi, di contro, adottano sempre più massicciamente la strategia del “calderone”, che mira a chiudere l’avversario in una sacca in modo da lasciargli una sola via di fuga e tagliarlo fuori dalle catene di rifornimenti. La superiorità numerica gli permette di attaccare in più punti e di spostare reparti da una direttrice all’altra in modo da obbligare la controparte alla ritirata.

 Contemporaneamente continuano gli attacchi dalla distanza, da un lato all’altro del fronte. Gli uomini del Cremlino colpiscono infrastrutture energetiche e molti edifici nelle grandi città dichiarando che si tratta di centri decisionali, fabbriche di armi o obiettivi sensibili. Spesso però sbagliano mira e il numero dei morti civili continua a crescere. Gli ucraini, invece, stanno affinando sempre di più le proprie capacità di inviare sciami di droni che riescono a far esplodere grandi depositi di idrocarburi, ormai anche a più di 800 km dalla linea del vecchio confine pre-bellico. I danni che questi piccoli (ed economici) velivoli stanno infliggendo al sistema energetico russo sono notevoli e hanno contribuito in maniera sostanziale, insieme alle sanzioni commerciali e finanziarie (in particolare alla banca del colosso del gas russo Gazprombank), a mettere in cattive acque l’economia di Mosca. Non abbastanza da obbligare Putin a cercare una soluzione immediata, ma sufficienti a spingerlo a prendere in considerazione un’eventuale proposta di tregua.

Proposta che, stando alle dichiarazioni oramai quasi quotidiane dei vertici russi, non è ancora arrivata. «Finora non abbiamo ricevuto alcun segnale dagli americani» ha dichiarato Dmitri Peskov, il portavoce del Cremlino, «Continuiamo a essere pronti e, da quello che abbiamo sentito, lo è anche la parte americana». Dunque il motivo di quest’attesa potrebbe essere l’elaborazione di una strategia che contenga delle offerte serie da portare sul tavolo simili a quelle che menzionavamo in apertura. Senza contare che Trump ha bisogno di convincere Zelensky prima di presentarsi da Putin, o altrimenti la sua proposta rischia di essere percepita come l’ennesima mossa mediatica. A tale proposito è importante analizzare la prima uscita pubblica del tycoon dopo il suo insediamento a Washington. In video-collegamento al Forum economico mondiale di Davos, al neo-presidente Usa è stato chiesto se Russia e Ucraina raggiungeranno un accordo di pace entro quest’anno. «Beh», ha risposto Trump con la sua solita espressione di sfida: «dovreste chiederlo alla Russia, l’Ucraina è pronta a fare un accordo». La sicurezza della risposta ha stupito tutti perché lascia (o vuole espressamente lasciare) intendere che i colloqui con l’amministrazione ucraina ci sono già stati e hanno portato a risultati più importanti di quelli che conosciamo. Ma Kiev non si è sbilanciata affatto, anzi, neanche una settimana dopo il consigliere capo di Zelensky, Andriy Yermak, ha scritto su Telegram che «il piano di pace da 100 giorni di Donald Trump per l’Ucraina che circola nei media non esiste nella realtà», si tratta solo di «tentativi di disinformazione spesso legittimati dai russi». Per il Wall street journal, che aveva dato la notizia, si tratterebbe di un accordo in più fasi che prevede una tregua intermedia a Pasqua e la fine della guerra entro il 9 maggio 2025 grazie al coinvolgimento di Stati Uniti, Cina, paesi europei e Sud del mondo. Ma al momento non abbiamo alcuna conferma ufficiale.

C’è anche chi ritiene, ma si tratta soprattutto dei fan di Donald Trump, che a ridosso delle commemorazioni per il terzo anno di guerra, il 24 febbraio, Trump potrebbe finalmente annunciare quali sono le sue intenzioni per l’Ucraina, magari da Kiev. Nel frattempo la guerra continua e le temperature invernali costringono per il terzo inverno di seguito i civili a patire il freddo, la fame e i bombardamenti nell’attesa che altrove, magari dall’altra parte dell’oceano, si trovi una soluzione che ponga fine alle loro sofferenze.