LOS ANGELES – “In un momento che sta mostrando la fragilità strutturale della democrazia americana (…) le pulsioni estremiste emergenti fra gli artefici del capitalismo della sorveglianza – i signori dei dati e dell’informazione – non possono non inquietare.” Scrivevamo questa frase su Quaderni dell’agosto del 2022, prima ancora che Elon Musk finalizzasse l’acquisto di Twitter.
La foto dei maggiorenti digitali seduti davanti ai ministri del governo alle cerimonia di insediamento di Trump rappresenta il compimento di quella parabola e rimarrà come immagine icastica dei flussi di potere reale della nuova era americana.
Difficile, certo, era prevedere l’accelerazione vertiginosa con cui la militante plutocrazia tecnologica, avrebbe contribuito ad immettere gli Stati uniti sul binario di una transizione in regime autoritario e antidemocratico, che è di cattivo presagio per l’occidente e il mondo.
La seconda presidenza Trump inizia con un senso più palpabile di pericolo immediato. La vantata democrazia USA, i cui padri fondatori erano notoriamente ossessionati dal possibile avvento di un tiranno, non ha saputo elaborare il primo tentativo di golpe della sua storia. Trump si è sottratto a tutte le sponde istituzionali preposte alla difesa dello stato, due impeachment, quattro processi e infine un’altra elezione. Dopo quattro anni di “esilio” il presidente “eversivo” torna al potere, più agguerrito, più organizzato e più potente, con un piano per trasformare la repubblica in modi che promettono di stravolgerne le caratteristiche fondamentali.
Quello che si profila è di fatto la conclusione del ciclo di democrazia liberale consolidata nel dopoguerra. Donald Trump, presidente plenipotenziario con documentate predisposizioni anticostituzionali ed una immunità totale e preventiva concessagli dalla Corte suprema blindata da togati reazionari, si appresta a lasciare un’impronta sul paese che, come specificato nella dettagliata prescrizione, del “Project 2025,” il documento programmatico stilato dalla Heritage Foundation, si intende indelebile. È in gioco in altre parole, l’esperimento americano nella forma in cui ebbe inizio 249 anni fa.
Trump ha consolidato una coalizione fra anarco capitalisti, frange di estrema destra e quel serbatoio di integralismo religioso che ha sempre fatto parte dell’animo americano e che Ronald Reagan, 40 anni fa, ha attivato come blocco votante conservatore. La cifra comune di queste componenti è il fanatismo e Trump conta di fatto su di un seguito più simile ad un culto religioso che non quelli tributati a leader politici, dato che gli ha permesso di consolidare un potere assoluto sul partito repubblicano.
Il blocco evangelico teocon ha contribuito una vasta ed affidabile base elettorale ed una base bianca e scarsamente istruita, imbonita da un ecosistema mediatico e social cresciuto a dismisura, il tipo di fervore inscalfibile che ha molti infelici precedenti nell’ascesa di autocrati populisti. Ma è stata l’alleanza con l’oligarchica tecnologica, i magnati che per ricchezza ed abissale distanza dalla gente comune, rammentano i “robber barons” dell’inizio del ventesimo secolo e quella gilded age che Trump ama evocare parlando di “nuova età dell’oro.”
Una confraternita ideologica di anarco capitalisti di Silicon Valley ha messo fermamente le mani sul governo più potente del mondo, come non riuscirono mai a fare i Vanderbilt i Rockefeller e i magnati di allora che pure esercitavano una forte influenza politica. Ma gli esponenti di quella che Biden nel discorso di commiato a definito “complesso tecnologico industriale,” sono animati da un estremismo ideologico.
Il culto reazionario di Silicon Valley è mosso in parte da pulsioni ultraliberiste ispirate ad Ayn Rand, autrice visceralmente anticomunista, che negli anni 30 aveva guadagnato un nutrito seguito con romanzi che facevano elogio dell’individuo geniale e imprenditore e l’apologia di un libero mercato misticamente benefico. I signori delle piattaforme condividono l’idea che ai capitani dell’industria e dell’innovazione, competa di diritto la progettazione di una società plasmata dalle loro tecnologie.
In questa concezione la democrazia è ritenuta sterile orpello burocratico, arcaico ed inefficiente intralcio al vigore delle imprese innovatrici. Sono concetti che da quando li segnalammo qui due anni fa, hanno preso a circolare sempre più insistentemente in rete, in saggi e libri di tycoon tecnologici come Peter Thiel, miliardario ideologo ed ex socio di Elon Musk, famigerato per aver teorizzato che la “democrazia non è più compatibile con la libertà”.
Nella costellazione di referenti ideologici vi sono poi Heidegger e Leo Strauss, teorizzatore della modernità come deviazione aberrante dalla tradizione occidentale classica. E in questa idea, recuperata ed ampliata da filosofi molto in voga nella destra di Silicon Valley, come Curtis Yarvin, si trova anche la maggiore convergenza con la controparte integralista ed apocalittica, fautrice di un’antimodernità teocratica.
Come per i reggenti-filosofi della Repubblica di Platone (altro testo frequentemente citato), l’assunto è che i demiurghi del software, in quanto depositari della conoscenza e dell’innovazione, abbiano anche il diritto/dovere di plasmare la “società morale.” Alex Karp, AD della Palantir, l’azienda di analisi dati e applicazioni militari dell’intelligenza artificiale fondata da Thiel, ha pubblicato un saggio intitolato “The Technological Republic” in cui teorizza proprio la necessità dei colossi tech di controllare le politiche di governo.
L’alleanza forgiata con Trump, grazie a Elon Musk, mette l’obbiettivo a portata di mano. Il progetto va ben oltre le consuete dinamiche fra potere e capitale, ed ambisce alla “decostruzione dello stato amministrativo,” eufemismo dietro al quale si cela il progetto per abolire il patto sociale dello stato liberale e sostituirlo con una società in cui risultano fondamentalmente alterati gli equilibri sociali, di consumo e di produzione industriale, secondo le esigenze del capitalismo tecnologico. Un’opera che Musk potrà perseguire direttamente come titolare del nuovo dicastero per “l’efficienza del governo,” (DOGE).
Intanto la bordata di decreti firmati dal presidente “dal primo giorno,” ha dato un’indicazione del cambiamento “epocale” su tutti i fronti, che Trump aveva promesso alla base, nonché della concezione imperiale con cui intende proiettare il potere della presidenza, obliterando l’equilibrio istituzionale.
Ne sono riprova gli indulti concessi a più di 1500 rivoltosi eversivi condannati per i fatti violenti dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Oltre al pericolo immediato di rimettere in circolazione terroristi del calibro di Enrique Tarrio e Stewart Rhodes, leader di due milizie di stampo neonazista come i Proud Boys e degli Oath Keepers, il decreto rappresenta la definitiva pietra tombale dello stato di diritto negli Stati uniti.
Altri decreti erano scontati, come la nuova uscita dagli accordi di Parigi, ma non per questo meno sconcertanti per come segnalano al contempo negazionismo ed un interessato isolazionismo da parte della superpotenza occidentale che infligge ora un probabile colpo di grazia alle speranze già flebili di rimediare alla vera crisi climatica.
È stato questo lo spirito che ha animato l’intervento di Trump a Davos dove il presidente degli Stati uniti ha esposto il suo concetto di mercato globale come una competizione a somma zero che produce vincitori e vinti. In questo schema gli Stati uniti e le corporation americane saranno decisamente vincitori. Il presidente ha descritto la “nuova America” come una sorta di zona economica speciale, un paradiso fiscale dove le aziende, libere da gabelle e normative e i requisiti ambientali della “ridicola green new deal che ho abolito” potranno fiorire rigogliosamente. Chi vorrà partecipare al successo dovrà produrre in America, per gli altri vi saranno dazi e sanzioni.
Per imporre il modello Trump intende usare le dichiarazioni di “emergenza” che gli permetteranno di abolire, ha assicurato i finanzieri che lo hanno ascoltato a Davos, ogni normativa ambientale sull’industria. Gli enormi data center necessari all’intelligenza artificiale, ad esempio, sono destinati a raddoppiare il fabbisogno di elettricità. A loro Trump consentirà di costruire le proprie centrali energetiche private, utilizzando ogni fonte disponibile – compreso il carbone. Questo grazie alla dichiarazione di emergenza energetica che, come quella sull’immigrazione, porrebbe rimedio ad una crisi del tutto inventata: gli Stati Uniti sono già primi produttori di petrolio ed esportatori netti di greggio e gas. Ma all’emergente settore dell’intelligenza artificiale (su cui Trump ed i giga-miliardari puntano al monopolio) ne serve infinitamente di più.
Il Project 2025 prescrive esattamente questo tipo di “blitzkrieg” per sopraffare le resistenze politiche ed istituzionali. Trump che durate la campagna elettorale ha negato di conoscere il documento (per poi nominarne l’architetto a direttore del bilancio) ha immediatamente iniziato ad implementarne la ricetta per una distopia plutocratica. Un esempio istruttivo è stata la risposta agli incendi di Los Angeles. Trump ha iniziato con l’attaccare le autorità locali minacciando a più riprese di trattenere l’assistenza federale alle vittime se la California non accetterà i suoi termini su una riforma idrologica (basata su astruse tesi di approvvigionamento di acque dal settentrione “e dal Canada”) e se non applicherà riforme sulle procedure elettorali. Nella sua visita in California ha poi ribadito la bizzarra tesi secondo cui gli ecologisti: “hanno desertificato lo stato pur di nuocere agli imprenditori.” La sua ricetta per ricostruire verte dunque sull’abolizione della protezione civile, appalti privati a suoi colleghi costruttori e abolizione di ogni norma di sicurezza ed ambientale.
L’episodio ha rafforzato l’impressione inesorabile di un regime in procinto di sconquassare, nel nome dell’efficientismo aziendale, 70 anni di precedente legislativo e giurisprudenziale dell’amministrazione pubblica, con beneficio unico di una nuova fase e classe capitalista. Ne si percepisce allo stato attuale, una forza che possa opporvisi.
Gli Stati uniti sono controllati da una casta cleptocratica dai vasti interessi di affari (comprese le recenti palesi speculazioni in criptovaluta) che saranno il fulcro anche della geopolitica. Mentre Trump allenta i legami con la vecchia Europa “viziata” da norme e regolamenti, non fa segreto dell’ammirazione per leader autoritari come Xi, Putin e Kim Jong Un. Soprattutto privilegia rapporti di affari con vecchi soci (come i Sauditi) e nuovi consociati come Nayib Bukele, il presidente del Salvador, il primo ad adottare una criptovaluta come divisa nazionale. Bukele è spesso portato ad esempio virtuoso di autocrate liberista anche dai filosofi neoreazionari di Silicon Valley. I rapporti di affari sul Bitcoin che lo legano a Trump allineano anche i due paesi sull’ideale di un nuovo capitalismo liberista, securitario e liberticida.
Una post democrazia, insomma, dove diritti civili, giustizia sociale, istruzione ed uguaglianza sono considerati parte di una “vecchia politica” da subordinare agli imperativi degli “affari” e della “meritocrazia.” Un mondo in cui i diritti di una classe lavoratrice sempre più esautorata saranno sempre subordinati agli interessi di una nuova generazione plutocratica che ottiene e mantiene il potere attraverso la retorica populista.