PARIGI. Il mondo è entrato in una zona di grandi turbolenze e incertezze con l’insediamento del secondo mandato di Donald Trump, mentre la Ue tarda a reagire, divisa al suo interno. L’asse franco-tedesco è in panne da tempo, Berlino e Parigi stanno attraversando momenti di difficoltà, tra le elezioni anticipate in Germania il 23 febbraio e la crisi politica che incombe da mesi sulla Francia, dopo la scelta avventuristica del presidente Macron di indire elezioni legislative anticipate la sera stessa della sconfitta del suo partito alle europee. In questo vuoto, le forze di estrema destra, sempre più forti in Europa, rialzano la testa e cominciano a sognare di poter imporre nel vecchio continente le derive che già vediamo oltre-Atlantico.
In questo contesto, con un’Assemblea nazionale divisa in tre blocchi che si paralizzano a vicenda, in Francia il dibattito politico si è concentrato sull’interno, come se le porte e finestre sul mondo dovessero restare chiuse, nell’ossessione del debito pubblico che supera i 3mila miliardi e nel timore di un’impennata dei tassi di interesse. Tutta l’attenzione è devoluta alle sorti molto incerte del governo di François Bayrou, il quarto governo in un anno (dopo Borne, Attal e Barnier), in mano ora a un vecchio dinosauro della politica “padrino” dell’ascesa di Macron nel 2017, che ha esordito imponendo il suo nome al presidente, spinto ormai all’angolo e paralizzato dalla crisi, che avrebbe preferito qualcuno di più manovrabile. Da più di vent’anni, il centrista Bayrou teorizza il riavvicinamento dei democristiani con la socialdemocrazia. Per sopravvivere e non cadere come il predecessore Barnier sui colpi della “censura”, per aver troppo ceduto alle domande dell’estrema destra prima di essere pugnalato dal voto di sfiducia del Rassemblement National che si è unito al Nuovo Fronte Popolare, Bayrou ha cercato un’intesa con il Partito socialista. Per ora siamo in mezzo al guado. Ma il Ps ha fatto il primo strappo dell’accordo del Nfp, con la decisione – non facile – di non votare il 16 gennaio scorso la “censura” presentata dalla France Insoumise e sostenuta dagli Ecologisti e dal Pcf, subito dopo il discorso di politica generale del primo ministro (in Francia i governi non hanno l’obbligo di chiedere un voto di fiducia al Parlamento all’insediamento). “Abbiamo scelto di non praticare la politica del peggio perché può portare alla politica peggiore, cioè all’arrivo dell’estrema destra”, ha spiegato il segretario del Ps, Olivier Faure, anche se sottolinea che non si tratta di accordo “di non censura” e tanto meno di una coalizione, perché il Ps “resta all’opposizione”. È una scelta che non pregiudica il futuro, ha subito precisato il Ps: la verifica arriverà, se non prima, sicuramente a fine febbraio, con il voto sul budget della Francia. Per il momento, il capogruppo Ps al Senato, Patrick Kanner, afferma che “la questione che si pone è la censura”, perché i senatori discutono sulla base della finanziaria redatta da Barnier. Ma, aggiunge Kanner, “c’è la possibilità di far muovere le linee per un bilancio il meno peggio possibile”, anche grazie alla presenza alle Finanze del ministro Eric Lombard, ex banchiere vicino ai socialisti (aveva lavorato con Michel Sapin). Ci sono delle gravi questioni in campo: il paese è fermo, mentre i sindacati allertano sui più di 300 piani di licenziamenti e chiusure di fabbriche e attività, dalla Michelin che chiuderà due fabbriche (a Vannes e Cholet) ai tagli a Auchan, complessivamente 200mila posti di lavoro minacciati, “una distruzione” in corso del lavoro nell’industria e nei servizi, denuncia la Cgt.
Per non votare la sfiducia a gennaio, il Ps ha ottenuto qualche concessione: la diminuzione della spesa sarà minore di quella prevista da Barnier (il deficit nel 2025 sarà del 5,4%, l’anno scorso ha superato il 6%), Bayrou si è impegnato a non tagliare i 4mila posti di insegnante previsti dal suo predecessore, a sopprimere i tre giorni di “carenza” (cioè di non pagamento dei primi giorni di malattia) per i funzionari pubblici, ci sono misure per la casa, è evitato l’aumento del ticket per le visite mediche e c’è la conferma della tassa sugli alti redditi (non si sa se temporanea). Ma soprattutto, simbolicamente, dopo 7 anni di discussioni, polemiche e grandi lotte sindacali, c’è una minima apertura sulle pensioni, non un’abrogazione della legge Borne e nemmeno una sospensione, ma la convocazione di un “conclave” tra le parti sociali – non c’è mai stato un dialogo organizzato prima della riforma – per arrivare a delle proposte, senza “totem né tabù”, compresa l’età pensionabile alzata a 64 anni. Poi, sarà il Parlamento ad “avere l’ultima parola” si è impegnato Bayrou, anche se come preliminare ci sarà un’analisi della Corte dei Conti, per stabilire lo stato della situazione del finanziamento delle pensioni (il primo ministro sottolinea il forte deficit). C’è inoltre la promessa di non sganciare le pensioni dall’inflazione nel 2025.
Il Ps ha salvato il governo per un piatto di lenticchie? È quello che pensa Lfi. Per il leader, Jean-Luc Mélenchon, “il Ps frattura il Nfp, ma capitola da solo”, visto che Ecologisti e Pcf hanno seguito il voto di Lfi per la censura. Per il coordinatore del partito, Manuel Bompard, il Ps è diventato “la stampella” di Macron. Le tensioni sono fortissime, sono volati insulti, il Ps è stato accusato di essere “un traditore”, addirittura “collabo”. Ha risposto attaccando la politica “sterile” del rifiuto di Lfi, che fin dal risultato delle legislative del 7 luglio, che avevano portato in testa il Nfp senza pero’ dare una maggioranza alla coalizione, è rimasto fermo sull’applicazione del “programma, tutto il programma, solo il programma” della sinistra, senza scendere a compromessi con il centro. Ci sono divergenze di fondo tra quelle che alcuni affermano essere “due sinistre inconciliabili”: dalla laicità e al target elettorale (c’è la questione dell’importanza data alle comunità che compongono il paese contro un ideale universalistico), fino all’Europa e alle posizioni internazionali.
Sullo sfondo, come sempre in Francia, c’è l’ossessione delle presidenziali. Jean-Luc Mélenchon gioca la carta delle dimissioni di Macron: di fronte al caos e all’impossibilità di trovare una maggioranza per i governi successivi, il presidente sarebbe costretto ad andarsene. Del resto, secondo un sondaggio un po’ più del 50% dei francesi è d’accordo con questa analisi. Ma il primo partito in Francia è il Rassemblement National e c’è il grande rischio di una vittoria di Marine Le Pen, sempre che non venga condannata all’ineleggibilità a fine marzo, come ha chiesto il tribunale nel processo che la vede imputata, assieme a una ventina di altri esponenti dell’estrema destra, per il furto al Parlamento europeo sugli assistenti parlamentari (si parla di qualche milione di euro intascato dal Rn per far funzionare il partito in Francia, destinazione esplicitamente illegale nella Ue). Mélenchon, anche per l’età (73 anni), sa di avere il tempo contato, ritiene che il momento è propizio e vuole andare allo scontro subito con l’estrema destra. Il Ps, invece, non ha un leader designato, non ha un programma chiaro, ha bisogno di tempo. L’ex presidente François Hollande, che sogna di potersi ripresentare alle presidenziali, teorizza che il Ps ha ritrovato una centralità nella politica francese: “ormai niente puo’ farsi senza i socialisti né contro di loro, sono la chiave fino al 2027”. Mentre il segretario, Olivier Faure, continua a parole a schierarsi a favore di una candidatura unica a sinistra nel 2027, nel Ps e affini c’è già agitazione. Raphaël Glucksmann, di Place Publique (alleato del Ps), che ha guidato la lista alle europee, è per una rottura definitiva, per “costruire un’offerta politica senza Lfi e Mélenchon”. Per questo c’è bisogno di tempo e spingere Macron alle dimissioni sarebbe gettare il paese nel caos (anche al di là di Macron: se si rompe il tabù delle dimissioni di un presidente qualsiasi successore sarà sottoposto alla stessa minaccia in caso di crisi). Il 2027 è lontano e Bayrou intende sfruttare questo spiraglio, cercando accordi legge per legge con il Ps, per evitare di essere soffocato come Barnier dall’abbraccio con l’estrema destra. Ma Bayrou deve anche tener conto delle esigenze di Ensemble (i macronisti) e della destra dei Républicains, a cui ha appaltato la stretta sull’immigrazione, con il reazionario Bruno Retailleau agli Interni.
Ecologisti e Pcf osservano e non rifiutano il confronto per principio. “Se incontriamo Bayrou non è per seguire il Ps ma perché l’assenza del budget penalizza i più vulnerabili – spiega la segretaria dei Verdi, Marine Tondellier – e quando votiamo la censura non è per seguire Lfi, ma perché chiaramente i conti non tornano, in particolare sulle questioni ecologiche”. Il Pcf afferma di “non prendere posizione tra il Ps e Lfi” per il momento, “siamo tra i due”. Bayrou ha nella sua bisaccia un altro elemento di scambio da proporre al Ps: il cambiamento del modo di scrutinio, con il passaggio alla proporzionale. È il sistema in vigore alle europee: a giugno, il Ps con Glucksmann ha ottenuto il 13%, mentre Lfi è rimasta sotto il 10%, invertendo cosi’ il peso relativo delle forze politiche a sinistra e liberando i socialisti dalla dipendenza elettorale dell’intesa con Lfi a causa del maggioritario, a due turni.