Lavoro da 38 anni, forse qualcosa di più. La letteratura è però “l’altro” lavoro, quello che colleghi d’ufficio o conoscenti incasellano nella parola hobby, o passione, ma le cose sono ben diverse e non sono nemmeno un caso isolato: Joseph Pontus (1978-2001) darà alle stampe Alla linea (Bompiani, 2002) il suo primo e unico romanzo e caso editoriale: giorno dopo giorno elenca i gesti del lavoro alla catena di montaggio, la stanchezza, la secchezza dei gesti, la cancellazione del sogno tenuto in vita o spalando frutti di mare, oppure spostando carcasse di manzi, lui che aveva studiato letteratura e lavori sociali e fatto l’educatore.

Thierry Metz (1956-1997) in Diario di un manovale racconta di sé stesso muratore tra calcinacci, malta, sudore, gesti apparentemente sempre uguali e giornate senza memoria. Fabio Franzin, classe 1963, consegna molteplici raccolte di poesie che raccontano la fabbrica; lui che è tra i migliori poeti dialettali d’Italia in una fabbrica lavorerà per 40 anni, tra mani distrutte, sobillazioni e poi mani dimenticate quando subirà il licenziamento. Siamo lontani dalle ipotesi intellettuali e dal dibattito; le loro parole distano anni luce da quanto Elio Vittorini e Italo Calvino presentarono nel 1961 in una rivista, Menabò, volendosi interrogare su letteratura e la “nuova realtà produttiva dell’industrializzazione”; non siamo nemmeno vicini (anche se molte dinamiche resteranno invariate) da Ottiero Ottieri e il suo Donnarumma all’assalto (del 1959), romanzo piuttosto autobiografico ma soprattutto analisi del funzionamento di un sistema che integra solo chi ha competenze lavorative.

A cavallo tra la fine degli anni ’50 e tutti gli anni ’70, si pubblica di lavoro: da Vita agra di Bianciardi (del 1962) a Vogliamo tutto di Nanni Balestrini (del 1971) ma è una narrazione confinata ai margini, un fenomeno, uno spaccato, uno sguardo gettato, di sguincio, sulla vita “degli altri”. Rigurgiti sporadici avverranno anche dopo, saltando di pari passi l’edonismo guerrafondaio degli anni ’80 sino ai preparativi per il nuovo millennio.

È una stasi dove cambia lo sguardo, e dove cambiano le entità: la fabbrica diventa l’azienda. Cambiano le nomenclature, gli indirizzi, il chi fa cosa. Vengono scoperte nuove parole (globalizzazione; nuove tecnologie, flessibilità). La produzione si astrae, si concettualizza, le attività intanto delocalizzano, le “nuove tecnologie” smaterializzano il lavoro e il nuovo normale diventano atipicità e precarietà.

La campionatura è vastissima e così anche le voci: da Aldo Nove in Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese a una Michela Murgia di Il mondo deve sapere, romanzo tragicomico di una telefonista precaria; da Pausa caffè di Giorgio Falco a Generazione mille euro di Incorvaia e Rimassa. Incuneato in questi sussulti dimostrativi e denunzianti, c’è però tutt’altra realtà: così come è cambiato il mondo del lavoro, cambia (ancora) la narrazione.

Dalla Silicon Valley ci insegnano che settimane di 80 ore e votarsi alla causa non è solo sano ma il nuovo e unico modo per avere successo (la differenza con l’Ottocento: chi lavora è maggiorenne e non muore di tisi; e ha un ping-pong in ufficio, tre ristoranti e la lavanderia). Poi arriva LinkedIn in Italia (nel 2011). Il lavoratore (vale al maschile e al femminile) diventa egli stesso azienda per promuovere il sé; e diventa aziendalista promuovendo indefesso gli interessi di quell’azienda nella quale, davvero, non crede più (o non ha mai creduto, dal principio): è però necessario per consolidare l’immagine in luce di una nuova opportunità, di un miglioramento, una promozione, una nuova assunzione.

Ognuno impara un nuovo dizionario fatto di inglesismi e slogan, compartecipa convinto, pubblica sulla propria pagina frasi motivazionali, articoli, valida messaggi, spande motivazione, coinvolgimento, ognuno vive un “incredible journey”; e tutto è potente, d’ispirazione, motivante, e va introiettato nel sé più profondo, metabolizzato, poi va evangelizzato – con gratitudine – così che il messaggio spanda, faccia breccia, convinca, affermi la validità del tutto e di sé.

Le parole sono importanti, lo ripeteva – anzi, lo urlava – Nanni Moretti nel film Palombella Rossa. Per quanto il film sia così così e io non ami Moretti, è però una frase corretta: le parole fanno esistere le cose, sono un incantesimo perché rendono le cose nominate non solo vere ma utilizzabili; non solo astrazione ma costruzione di noi stessi, degli altri, delle cose e del mondo: non è un concetto buttato lì, basta leggere Wittgenstein, Pierce, Heidegger. Le parole sono importanti anche a livello inconsapevole: dicono non solo di noi, ma anche di ciò nel quale crediamo. Sono un atto di coraggio.

Ma il grande racconto vuoto delle parole altrui che siamo obbligati a fare nostre per validare la narrazione dell’azienda e quindi del mercato, di quella assenza di concetto se non la ripetizione accorata e smisurata di un mantra nel quale non crediamo, di quella connivenza: chi pagherà il conto? In quel vuoto pneumatico che ci viene imposto – e poi imponiamo a noi stessi – quali mani, e quali cervelli avranno senso e saranno necessari? In quale domani, e per chi?