La precarietà esistenziale della giustizia ticinese
Le condizioni malconce del Palazzo di Giustizia cantonale simbolizzano lo stato di salute della giustizia ticinese. Malconcia, appunto.
Le denunce e le controdenunce tra clan di giudici in guerra tra loro sono solo l’ultima puntata di una giustizia, ad esser teneri, in affanno.
Il terzo potere dello Stato funziona, ma solo parzialmente. Da più parti si indica nella conduzione del Dipartimento delle Istituzione, se non l’origine del problema, perlomeno l’assenza nel migliorare le condizioni quadro. Era il lontano 2011 quando il neo eletto Consigliere di Stato Norman Gobbi lanciò con enfasi mediatica il progetto “Giustizia 2018”, che a suo dire, avrebbe dovuto riformare l’intera giustizia ticinese.
A tredici anni di distanza, di quel progetto rimane poco o nulla, se non il tempo investito inutilmente da funzionari e le roboanti dichiarazioni di allora, seguite dalle successive scuse accampate per giustificare i ritardi.
Ricorda lo stesso progetto di polizia unica, pure lui lanciato con enfasi ma altrettanto decisamente in affanno.
Il passo del montanaro impresso da Gobbi ricorda, con rispetto parlando, quello delle escursioni organizzate dall’Atte.
Il Cantone securizzato
Sul fronte della polizia, Gobbi invece non si è certo risparmiato. Dal 2012 in cui c’era un agente ogni 399 abitanti in Ticino, si è passati ad uno ogni 301 abitanti. Una crescita impressionante, se si tiene conto anche dell’aumento della popolazione cantonale. Una crescita riscontrabile anche nei numeri totali.
In Ticino, dal 2013, gli effettivi delle polizie sono passati da 1’009 a 1’386 (quasi il 40% in più). Con buona pace degli strilloni della domenica su cui si vomita la bile sui funzionari pubblici e sul dover dimagrire l’apparato statale. D’altronde la visione securitaria di un poliziotto ad ogni angolo, è parte fondante della visione di società perfetta ipotizzata da Gobbi. Se poi la “militarizzazione” del territorio si traduca nell’effettiva applicazione della giustizia, e non si limiti alla sola caccia ai ladri di polli, molti elementi consentono di dubitarne.
Il sindacato Unia ha recentemente accusato la giustizia ticinese di essere a due velocità, forti coi deboli e deboli coi forti. Le denunce di dipendenti contro i datori del lavoro per esser stati sfruttati documentate dal sindacato, si trascinano per anni da cassetto in cassetto di procuratori che si alternano sui casi. Per contro, afferma il sindacato, quelle contro i lavoratori o funzionari sindacali accusati di fare il loro lavoro, hanno velocità di crociera ben diverse. Stessa sorte nelle inchieste su incidenti mortali sul posto di lavoro, purtroppo piuttosto frequenti nel lembo di terra in cui viviamo, dove la celerità non risulta esser mai una priorità per la magistratura. Oppure le bancarotte fraudolenti, dove gli indizi premonitori dell’inevitabile fallimento societario, sono puntualmente ignorate da tutti gli attori in assenza di una regia comune. Qualche anno fa, la sezione specifica della giustizia che si occupa di reati finanziari annaspava nella marea d’inchieste complesse per mancanza di personale. Non è cambiato nulla, è solo stato imposto il silenzio sulla questione. Tutto deriva dalle scelte politiche. Se fai crescere a dismisura il numero di agenti per strada, scegli di contrastare un certo tipo di (presunta) delinquenza, rinunciando a combattere la delinquenza di altro tipo, vedi economica o sui posti di lavoro.
Forti coi deboli, deboli coi forti
Probabilmente, non è il solo sindacato a intravvedere l’implementazione di una giustizia a due velocità. A contribuirvi, la vicenda dell’incidente in alta Leventina del Capo Dipartimento delle istituzioni. Le conclusioni dell’inchiesta del Procuratore generale Pagani coi due agenti di polizia accusati di favoreggiamento a insaputa del presunto favoreggiato, ha buone probabilità di diventare tema di facile ironia di uno o più carri del carnevale venturo. Sarebbe però ingiusto attribuire tutte le colpe dello stato malconcio della giustizia ticinese all’uomo solo al comando. Le responsabilità sono diffuse. Il Parlamento, la commissione competente, per anni hanno contribuito non poco nella mancata risoluzione dei problemi. Basti su tutte ricordare i cinque anni impiegati dalle varie istanze politiche cantonali per far passare una semplice modifica di legge in cui si autorizzava i segretari giudiziari a firmare dei decreti di accusa o di abbandono per reati in cui è prevista la sola multa. Anche in questo caso, la lentezza è frutto di visioni politiche precise. La legge vendita che regolava gli orari di apertura dei negozi, dopo neanche due anni dalla sua entrata in vigore, la maggioranza politica in Gran consiglio propose di modificarla. Modifiche che furono rapidamente discusse nella Commissione competente, sottoposte e approvate in Gran Consiglio nel giro di pochi mesi e, ad urne ancora calde della votazione popolare, immediatamente decretate in vigore dal Governo. Due velocità di intervento politico che ben sintetizzano le priorità politiche della maggioranza politica del cantone. Rimanendo sull’attualità, si vedrà i tempi in cui saranno discusse (e applicate), le ultime proposte della Commissione giustizia che, va riconosciuto, sembra aver preso sul serio il suo ruolo.
A mancare è la sostanza
Le responsabilità politiche dello stato della giustizia ricadono sulla caratura dei procuratori. Ci si ricorda lo scandalo di pochi mesi fa dell’elezione a procuratore di Alvaro Camponovo, segretario giudiziario dal gennaio 2022, figlio dell’amministratore unico della ditta in cui Sabrina Aldi, allora vicecapogruppo leghista, ricopriva la carica di direttrice amministrativa. Il Parlamento, seppur con pochi voti e molti astenuti, lo elesse malgrado la sua scarsa esperienza. L’elenco di procuratori probabilmente inadatti a svolgere quel ruolo potrebbe continuare, ma non è il caso di insistere. Sebbene il caso del candidato Camponovo spinto dai leghisti fosse il più pacchiano, la pratica è trasversale, partiticamente parlando. Da tempo ormai, i partiti non hanno più alcun pudore nel far eleggere persone inadatte. Personalità come Dick Marti, che da Procuratore si distinse per un radicato senso della giustizia indipendente dai poteri, non abbondano. Purtroppo però oggi non si fa nessun sforzo per individuarle e incoraggiarle a ricoprire ruoli importanti al servizio delle comunità.
Di macerie e anticorpi
L’inchiesta sulla demolizione del Molino, potenzialmente pericolosa per migliaia di persone perché presa senza alcuna precauzione per il rischio amianto, è indicativa dello stato della giustizia ticinese. Benché appaia ormai palese che fin dall’inizio della sua programmazione l’operazione di sgombero dovesse portare ad una “Situazione finale auspicata: demolizioni effettuate” (come riportato nei documenti datati 18 marzo), ancora oggi non sappiamo se sia stata la Polizia ad agire in autonomia o se la demolizione fu avvallata da un’autorità politica, cantonale o comunale che sia. A complicarla e ritardarla, il sigillo del comandante della polizia cantonale Cocchi sulla documentazione richiesta dalla Procura. Sono pochi i Paesi al mondo in cui la polizia ostacola il lavoro d’inchiesta della Procura. E non sono Paesi noti per il rispetto dello Stato di diritto su cui si fondano le democrazie liberali. Poiché la procedura penale già garantisce la tutela di informazioni particolarmente sensibili senza dover ricorrere ai sigilli, sarà interessante sapere cosa Cocchi abbia voluto nascondere nella copiosa documentazione secretata.
Da questa inchiesta però si possono trarre insegnamenti positivi sullo stato della giustizia ticinese. La prima inchiesta del Pg Pagani in cui assolse la polizia e la politica della ruspa, fu sonoramente bocciata dalla Corte dei reclami penali, costringendolo ad aprirne una seconda e annullando i decreti d’abbandono. I sigilli polizieschi alla seconda inchiesta furono altrettanto sonoramente rigettati dal giudice di provvedimenti coercitivi. Degli anticorpi positivi nella Magistratura dunque esistono. Sono pochi, ma resistono. Purtroppo, chi governa fa di tutto per eliminarli.