Israele sta perdendo la guerra, lo hanno riconosciuto e scritto in molti nelle ultime settimane. Non quella militare, ovviamente, che continua con i suoi droni, le sue incursioni aeree, i tank che avanzano tra le macerie della Striscia di Gaza. Sta perdendo un’altra guerra: quella morale, quella dell’immagine e della legittimità. E con essa, rischia di crollare un intero impianto ideologico, mediatico e politico che per quasi due anni ha protetto, giustificato, addirittura esaltato una campagna di devastazione sistematica e un massacro che ha cancellato interi quartieri, comunità, famiglie.
Ora che quel castello di carte inizia a sgretolarsi sotto il peso dei fatti, delle immagini, delle testimonianze, i primi a defilarsi sono proprio coloro che l’avevano costruito: redazioni di giornali, governi europei, élite diplomatiche e intellettuali che, nei diciannove mesi successivi all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, hanno scelto il silenzio, l’ambiguità o, peggio, la complicità. Adesso abbandonano il carro su cui avevano preso posto, nel tentativo di salvare la faccia e la propria credibilità. Temono, più che un giudizio morale, le conseguenze legali e storiche. Temono di essere accusati, domani, di aver difeso politiche e campagne militari che potrebbero essere qualificate – anche da corti internazionali – come parte integrante di un genocidio.
Nel frattempo, qualcosa si muove anche nei media occidentali. Non si tratta di singole voci critiche isolate, ma di intere redazioni che iniziano a cambiare tono. Sono i comitati editoriali che rivedono la linea, l’apparato informativo che lentamente si sgancia dalla narrativa dominante. Ma è una svolta tardiva, figlia non della coscienza ma della paura: quella di perdere lettori, credibilità, reputazione. Questo mutamento arriva ora, dopo diciannove mesi di devastazione e più di 53mila morti. Quando i dati e le immagini sono divenuti inoppugnabili.
Le crepe si aprono anche dentro Israele. Il 20 maggio scorso, l’ex generale Yair Golan, oggi leader del partito Democratici (centrosinistra sionista), ha dichiarato alla radio pubblica israeliana: «Israele a Gaza uccide bambini per hobby, è sulla buona strada per diventare uno Stato paria, come lo fu il Sudafrica, se non torniamo a comportarci come un Paese sano di mente». Parole che hanno scosso profondamente l’opinione pubblica, non solo perché pronunciate da una figura di alto profilo, ma anche perché Golan, nei giorni successivi all’attacco di Hamas, aveva assunto una posizione in linea con quella del governo Netanyahu, invocando un’azione militare permanente come soluzione al conflitto. Che oggi sia lui a denunciare la deriva del suo stesso Paese è il segno che qualcosa, anche dentro il sistema israeliano, sta cedendo.
In parallelo, nello Stato ebraico crescono le proteste per il rilascio degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. Familiari e attivisti chiedono un cessate il fuoco e uno scambio di prigionieri, mentre il governo spinge nella direzione opposta: quella della prosecuzione della guerra a oltranza, della rioccupazione della Striscia, dello spopolamento forzato. Il primo ministro Benyamin Netanyahu ha reagito con furia alle parole di Golan, accusandolo di “incitamento selvaggio” e di riproporre “insulti antisemiti” contro l’esercito. Ma non è stato il solo a rompere il fronte. Sempre il 20 maggio, l’ex premier Ehud Olmert ha dichiarato alla BBC che le operazioni in corso a Gaza «sono molto vicine a un crimine di guerra». Un’eco che si è propagata ben oltre i confini di Israele.
Eppure, nonostante queste aperture, il dibattito interno, pur importante, non sembra in grado di produrre svolte concrete. Sul terreno la guerra continua, i negoziati in corso a Doha restano in stallo, e Gaza è ancora sotto le bombe. La carestia non è un effetto collaterale, ma parte della strategia. I convogli umanitari vengono bloccati, i magazzini bombardati, l’accesso agli aiuti ridotto a un filo. Le infrastrutture idriche sono collassate. L’acqua potabile è un privilegio per pochi. Le immagini di bambini scheletrici, donne incinte denutrite e ospedali devastati hanno invaso i social, ma trovano ancora scarsa eco nelle agende politiche occidentali. Quando, il mese scorso, Israele ha annunciato l’“autorizzazione” all’ingresso di alcuni aiuti umanitari, parte della stampa internazionale ha celebrato l’iniziativa come un atto di benevolenza. Eppure, le capitali europee sapevano bene che si trattava solo di una mossa di facciata. Il vero obiettivo resta: smantellare Gaza, svuotarla, ridisegnarla. Ufficialmente in nome della lotta a Hamas. In realtà per cancellarne l’identità e, si teme, la stessa l’esistenza.
In Occidente, la risposta resta ambigua. A maggio, l’Unione Europea ha ventilato la possibilità di rivedere l’accordo di cooperazione con Israele. Regno Unito, Francia e Canada hanno diffuso una dichiarazione congiunta chiedendo a Netanyahu di “cambiare rotta”. Ma sono gesti simbolici. Nessuno ha sospeso concretamente la vendita di armi. Nessuna sanzione è stata imposta. Nessuna pressione diplomatica incisiva. Se davvero, come afferma il leader laburista britannico Keir Starmer, la reazione israeliana è “sproporzionata”, allora il Regno Unito dovrebbe cessare immediatamente ogni forma di collaborazione militare.
La voce dell’analista Ahmad Rashid Ibn Said si alza con forza: «La carestia a Gaza è la prosecuzione del genocidio con altri mezzi», ha scritto in un saggio pubblicato su una rivista araba indipendente. Ibn Said non risparmia nessuno: accusa le monarchie del Golfo, l’Egitto, la Giordania, di aver voltato le spalle ai palestinesi per opportunismo politico ed economico. «Gaza ha distrutto l’illusione di credibilità dell’ordine politico arabo, esponendone il fallimento strutturale e morale». L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno condizionato la ricostruzione della Striscia all’eliminazione totale di Hamas. La Giordania ha proposto l’esilio di migliaia di suoi membri. È una linea condivisa. Per i regimi arabi, la causa palestinese non è una priorità: è un fastidio. Un simbolo che rischia di incendiare le loro stesse opinioni pubbliche, sempre più insofferenti alla retorica di sostegno e all’assenza di azioni concrete. «Nel corso degli anni – prosegue Ibn Said – il tradimento dei governi arabi si è trasformato in complicità. Per loro, la liberazione della Palestina è un mito che destabilizzerebbe l’architettura del potere». In altre parole, il destino di Gaza è stato sacrificato sull’altare della stabilità interna e degli equilibri geopolitici. Anche per questo, nessuna capitale araba ha preso iniziative forti per fermare il massacro. Nessuna ha chiesto con forza un cessate il fuoco immediato.
Negli Stati Uniti, la situazione è altrettanto opaca. Donald Trump, nel suo recente tour in Medio Oriente, ha evitato accuratamente di visitare Israele. Ha preferito parlare da Doha, condannando l’attacco di Hamas ed evitando di affrontare le responsabilità israeliane. Un calcolo politico, tipico del trumpismo: evitare di esporsi in un conflitto che ora puzza di sconfitta. Nel frattempo, la Casa Bianca continua a invocare il diritto di Israele a difendersi, approva nuovi invii di armi e ostacola ogni tentativo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di imporre un cessate il fuoco duraturo.
All’interno del campo palestinese, le tensioni salgono. Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che nelle settimane passate ha di fatto scelto, un suo successore, Hussein Sheikh (molto gradito a Usa e Israele), accusa Hamas di essere responsabile della catastrofe a Gaza, definendone i membri «figli di cani». Un linguaggio violento, che riflette una rottura ormai insanabile tra le due anime palestinesi. È lo stesso Abbas che, solo due anni fa, supplicava le Nazioni Unite: «Non siamo forse esseri umani? Anche gli animali dovrebbero essere protetti». Oggi ha dimenticato quell’appello, mentre il suo potere è screditato e privo di consenso.
La questione palestinese è, da sempre, una cartina di tornasole dell’ordine globale. Gaza è diventata l’epicentro, della coscienza internazionale. Ogni massacro, ogni ospedale distrutto, ogni bambino sepolto sotto le macerie interroga l’intero sistema internazionale. La retorica dei diritti umani si frantuma contro il muro delle alleanze strategiche. L’equilibrismo diplomatico è diventato l’altro volto della complicità. Ma il tempo per agire si sta esaurendo. Ogni giorno senza una rottura chiara e irreversibile con la politica della distruzione praticata da Israele è un giorno che costa vite palestinesi. Gaza non è più soltanto un campo di battaglia: è il luogo in cui si misura la credibilità dell’umanità stessa. E se il mondo resta a guardare, allora non sarà solo Israele a diventare uno Stato paria. Sarà l’intera comunità internazionale a portarne la responsabilità.